Il prodotto gode di una riconoscibilità e una diffusione senza precedenti grazie a standard rigorosi e all’impegno di un consorzio di aziende
Siete un contadino calabrese della Sila. È il 2002. Producete una patata spettacolare, in un ambiente meraviglioso, ma vi spezzate la schiena per venderla a 18 centesimi al chilo. Ve ne costa 20 di centesimi, però. Negli anni ’50 producevate per uso familiare o poco più. Ora riuscite a vendere in tutta la Calabria, ma non andate oltre Messina. Campate solo grazie agli aiuti della Regione e a qualche fondo europeo. Siete in cima alla Sila, tra Cosenza, Crotone e Catanzaro, tra i faggi e gli abeti, le volpi e i lupi, e vi chiedete: che faccio, insisto o me ne vado? Voi che fareste?
Il miracolo economico della «Patata della Sila»
Comincia da quattro amici al bar, come nella canzone, la storia straordinaria della «Patata della Sila», un miracolo economico unico in una Regione che ha qualche eccellenza, ma fatica a farsi strada. Si può cominciare con qualche dato, per capire dove siamo partiti e dove siamo arrivati: nel 2003 si producevano 6 mila quintali di patate, oggi siamo a 150 mila quintali. Il fatturato nel 2003 era di 150 mila euro, quest’anno si aggira sui 14 milioni di euro. Non male come trend di crescita. Che è andato di pari passo con una riconoscibilità e una diffusione della patata della Sila senza precedenti: l’80 per cento della produzione ormai è venduta al Nord e in questi giorni spopolano gli spot con Caterina Misasi sulle principali reti televisive e radiofoniche.
La nascita del Consorzio
Ma com’è stato possibile questo miracolo? Ce lo spiega Francesco Aiello, docente di Politica economica all’Università della Calabria. Quei primi anni del 2000 mettono gli agricoltori davanti a un bivio: «Cambiare strategia o riconvertire la produzione. Perché il settore era in crisi: i mercati di riferimento erano lontani da quella sperduta montagna della Calabria, i produttori erano isolati, autonomi, frammentati e la loro patata era come quella di tutti gli altri». Più buona, ma come riconoscerla?
È allora che i quattro amici – quattro famiglie di produttori – si trovano in un bar e hanno l’idea: creare un Consorzio e chiedere il riconoscimento europeo di Igp, indicazione geografica protetta. Direte voi, non è un’idea così originale, creare un consorzio. Vero, ma questo non è un consorzio di tutela, come molti. È un consorzio con ambizioni più alte, a valenza commerciale. Racconta Aiello: «Le prime venti aziende che si associano, in quegli anni, mantengono l’autonomia produttiva e gestionale, mentre il consorzio si occupa della commercializzazione». La prima idea vincente è quella di cambiare l’acquirente: non più il piccolo commerciante o i mercati generali, ma le industrie di trasformazione. Con le patate si fanno mille prodotti: i passati e le creme di patate, le patatine fritte nel sacchetto, gli gnocchi e molti altri. È il primo salto di qualità: si saltano i piccoli intermediari, che strozzano i prezzi, e si arriva direttamente a chi quei prodotti li trasforma e li vende in grandi quantità.
Il riconoscimento Igp nel 2010
Poi, nel 2010, arriva il riconoscimento Igp. La «patata della Sila» diventa un brand. Il disciplinare favorisce la creazione di standard comuni nella produzione. Il consorzio accentra nuove funzioni. Assume agronomi, si dota di una logistica sempre più imponente, costruendo un grande stabilimento a Camigliatello. E si prepara al salto di qualità definitivo: «È il passaggio alla grande distribuzione. I primi contratti sono con Conad. I rapporti con supermercati e grandi magazzini impongono enormi capacità organizzative. Gli ordinativi sono immensi. Servono depositi di stoccaggio. L’Igp e la nuova distribuzione esigono standard rigorosi. I terreni dopo un anno di produzione devono stare a riposo, a maggese o ad altre colture, per due anni. Se una patata è più piccola o più grande, deve essere scartata. Lo stesso avviene se ha una macchiolina quasi invisibile. Il Consorzio assume nuove funzioni. Automatizza i terreni, con rilevatori di tassi di umidità, per evitare lo spreco d’acqua. Regola l’uso dei fitofarmaci, limitandolo al massimo».
Un’ottantina di aziende
È l’approdo a un modello vincente. Le aziende, che sono diventate un’ottantina, non si preoccupano più di vendere, né della concorrenza. Conferiscono le patate al Consorzio, che agisce per conto loro. Aiello conclude: «Sono stati rimossi i vincoli iniziali. Quello dell’individualismo, che aveva prodotto una grande frammentazione. Le persone non si fidavano l’una dell’altra, ma poi hanno visto che unirsi era conveniente. L’altro vincolo rimosso è stato quello della lontananza geografica, risolta grazie ai depositi e alle nuove capacità logistiche. Infine quello della qualità: il marchio crea una reputazione, che stimola la cooperazione. Chi non produce qualità, è fuori. Il prezzo di vendita è cresciuto: se all’origine era di 18-19 centesimi al chilo, oggi viene venduto intorno ai 90 centesimi. Non c’è più invenduto e gli ordini sono programmati con un anno di anticipo».
Un territorio unico
Una case history da studiare. Ma perché il miracolo economico avvenga ci vuole anche e soprattutto un grande prodotto alla base. E la patata della Sila lo è. Ci spiega Albino Carli, direttore del Consorzio: «La patata viene prodotta in un territorio che è unico nel suo genere: un altopiano a 1300 metri sul livello del mare, con un clima di alta montagna ma con la brezza di due mari, lo Jonio e il Tirreno. Un territorio ricco di potassio e incontaminato, nel Parco nazionale della Sila. Le escursioni termiche estive sono importanti. Ma è fondamentale anche il sole: si semina a maggio e si raccoglie in autunno, tra settembre e novembre».
Le sei varietà di patate
Ci sono sei varietà: Agria, Désirée, Ditta, Majestic, Marabel e Nicola. La migliore, dicono, è l’Agria, sapida e consistente. Le temperature invernali a cui viene raccolta aiutano la conservazione. Opportunamente trattata, in celle frigorifere, la patata della Sila, che è ricca di amido, può essere messa sul mercato anche in primavera-estate, a diversi mesi dal raccolto. Senza grandi differenze qualitative, se non la perdita d’acqua, tipica delle patate «vecchie» (usate, per questa caratteristica, per fare gli gnocchi). Il metodo più diffuso di coltivazione è quello integrato (con minor impatto ambientale possibile), solo in qualche caso biologico. In Calabria è vietato il glifosato, checché se ne pensi (ci sono dibattiti sulla sua pericolosità, finora non provata). Il Consorzio oggi ha un’ottantina di dipendenti, mentre le aziende sono quasi tutte a conduzione familiare. La grande meccanizzazione, più facile in questo settore rispetto a quello dei pomodori o della frutta, ha ridotto il numero di stagionali necessari per il raccolto. Tutti in regola, assicurano dal Consorzio.
Un successo nazionale
Insomma, un successo. Carli lo spiega così: «I calabresi sono testardi, solitari e diffidenti. Siamo riusciti a scardinare questi limiti, soprattutto perché abbiamo dato risposte economiche positive. E perché non abbiamo costruito un consorzio di tutela, come ce ne sono tanti: per esempio quelli per le clementine, la cipolla di Tropea o il limone di Rocca Imperiale. Il nostro è un consorzio che si occupa della commercializzazione». La patata della Sila non è ancora arrivata all’estero: «Per ora non ci interessa, anche perché l’Italia non è autosufficiente nel settore: produciamo il 60 per cento di quello che consumiamo. C’è quindi un grande mercato ancora da conquistare qui in Italia».
E c’è ancora molto da fare per diffondere la cultura gastronomica calabrese. Chi conosce, per esempio, le patate ‘mpacchiuse, specialità cosentina? È arrivato il momento di provare a farle. Con la patate della Sila, naturalmente, che reggono meglio la frittura: non si rompono in cottura e non assorbono troppo olio. Se poi si vuole un abbinamento, la Calabria è lì per aiutare: un Cirò classico, magari della Cirò revolution dei «giovani» di ‘A Vita o Cataldo Calabretta. E un magliocco cosentino, come il Toccomagliocco dell’Acino di Dino Briglio.
Questo articolo in origine è stato pubblicato sulla newsletter «Il Punto» del Corriere della Sera, clicca qui per iscriverti.
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