Adesione accordo di diritto pubblico e non privato

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Secondo la Corte di Cassazione l’accertamento con adesione deve essere definito in termini di accordo di diritto pubblico, quindi non si può sostenerne l’impugnabilità sulla base di una sua natura transattiva negoziale

Spesso ci si interroga sulla effettiva natura giuridica dell’accertamento con adesione, se atto negoziale o accordo di diritto pubblico.

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La Suprema Corte (cfr., Cass., n. 18592/2024) ha a tal proposito recentemente chiarito che l’accertamento con adesione non può essere definito in termini di negozio di diritto privato, quanto piuttosto in termini di accordo di diritto pubblico, rilevando che la definizione dell’accertamento con adesione in termini di negozio di diritto privato non trova riscontro nella giurisprudenza di legittimità (v., anche Ordinanza, n. 14568/2021).

Adesione accordo di diritto pubblico e non privato: il caso analizzato

Nel caso di specie, la società contribuente aveva convenuto in giudizio, davanti al Tribunale, l’Agenzia delle Entrate, chiedendo che, previa declaratoria di nullità o di annullamento degli atti di accertamento per adesione sottoscritti tra le parti, l’Agenzia fosse condannata, insieme ai suoi funzionari, in solido tra di loro, anche ai sensi dell’art. 20143 cod. civ., al risarcimento dei danni subiti dalla società attrice.

A sostegno della domanda esponeva, tra l’altro, che la stessa attrice, società esercente il servizio di trasporto aereo con elivelivoli, era stata sottoposta dall’Agenzia convenuta ad un accertamento, che si era concluso ipotizzando, a suo carico, la qualità di società di comodo per gli anni 2009-2012, con conseguente liquidazione di imposte e sanzioni per una cifra pari a circa sei milioni di Euro.

Aggiungeva che tra le parti erano poi stati conclusi accordi in adesione che avevano ridotto il debito complessivo; accordi che, però, erano da considerare nulli o annullabili per presunte pressioni indebitamente e scorrettamente esercitate a suo carico, consistenti, a suo dire, nella minaccia di una denuncia penale e dell’iscrizione a ruolo, nella misura di un terzo, della maggiore imposta accertata.

Il Tribunale rigettava la domanda e avverso detta sentenza la società proponeva appello, ma la Corte d’Appello lo rigettava, condannando l’appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado di giudizio.

I giudici di secondo grado rilevavano infatti che gli atti di accertamento per adesione in contestazione avevano ridotto in modo significativo le maggiori imposte e le sanzioni irrogate. Ciò in quanto l’Amministrazione finanziaria, all’esito del contraddittorio con la contribuente e della valutazione dell’ulteriore documentazione da questa prodotta, aveva limitato agli anni 2010 e 2011 l’applicazione della normativa antielusiva di cui all’art. 30, comma 1, della legge n. 724 del 1994 ed aveva escluso, per l’anno 2012, l’applicazione della disciplina in materia di società di comodo.

L’accertamento con adesione non è impugnabile, in quanto definito in termini di accordo pubblico

Tanto premesso, la Corte di merito aveva quindi richiamato il consolidato orientamento in base al quale l’accertamento con adesione – definito dalla giurisprudenza di legittimità in termini di accordo di diritto pubblico – determina “l’intangibilità della pretesa erariale oggetto del concordato intervenuto tra le parti, con la conseguenza che risulta normativamente esclusa per il contribuente la possibilità di impugnare simile accordo e, a maggior ragione, l’atto impositivo che ne costituisca eventualmente il presupposto, il quale conserva efficacia solo a garanzia del fisco, sino a quando non sia stata interamente eseguita l’obbligazione scaturente dal concordato, nonché quella di chiedere il rimborso delle somme versate in esecuzione dell’accordo stesso”.

Rilevava inoltre la Corte d’Appello che, comunque, ove pure si fosse ipotizzato che tale intangibilità non precluda l’esercizio dell’azione di annullamento, nella specie non era configurabile, neppure in astratto, il vizio del consenso ipotizzato dalla società appellante, apparendo irrilevanti, a tal fine, sia la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica, da ritenere atto dovuto, sia l’iscrizione a ruolo, in misura di un terzo, della maggiore imposta dovuta, anch’esso atto dovuto.

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Secondo la Corte, nessuna costrizione era peraltro nemmeno immaginabile, posto che gli accertamenti per adesione erano giunti al termine di una complessa procedura in contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria, nel corso della quale la società attrice era stata assistita da tre professionisti; tanto più che l’accertamento definitivo, ben più favorevole per il contribuente, aveva determinato anche lo sblocco e l’incameramento di rimborsi IVA relativi agli anni 2013 e 2014.

In conclusione, secondo i giudici di secondo grado, in assenza di un danno ingiusto e di una condotta colposa o dolosa dei funzionari, la domanda risarcitoria doveva essere integralmente rigettata.

Contro la sentenza della Corte d’Appello la società proponeva infine ricorso per cassazione, censurando, per quanto di interesse, la sentenza impugnata laddove aveva inteso l’azione attorea come mera impugnazione degli atti per adesione per vizi del consenso, mentre essa si fondava sulle contestazioni riferite alle violazioni della buona fede e delle regole e principi in ambito tributario, in particolare laddove l’Amministrazione non aveva valorizzato fin dall’inizio dell’accertamento gli elementi in proprio possesso e più favorevoli alla società contribuente, valorizzati poi, solo parzialmente, in sede di adesione.

Con altro motivo di impugnazione, la società ricorrente sosteneva poi che gli accertamenti per adesione potessero comunque essere definiti come negozi di diritto privato (al fine, evidentemente, di richiamarne la disciplina civilistica in termini di vizi della volontà).

La Suprema Corte respingeva il ricorso.

Al di là della dichiarazione di inammissibilità dei motivi sollevati, i giudici di legittimità evidenziano che la Corte d’Appello aveva illustrato con chiarezza espositiva e con ricchezza di particolari tutte le ragioni per le quali dovevano escludersi sia la possibile esistenza di un vizio del consenso da parte della ricorrente e sia la violazione dei principi di correttezza e buona fede in materia di diritto tributario. Altrettanto dovendo dirsi in relazione alla contestazione della presunta scorrettezza dei dati assunti negli accertamenti per adesione.

La definizione poi dell’accertamento con adesione in termini di negozio di diritto privato veniva respinta a favore della natura accordo di diritto pubblico.

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Adesione accordo di diritto pubblico e non privato: conclusioni

In sostanza, e al di là dello specifico caso processuale, è proprio su questo punto che preme appuntare l’attenzione, non potendo sostenersi la impugnabilità dell’accertamento con adesione sulla base di una sua natura transattiva negoziale, legittimata quindi anche per motivi di impugnazione del contratto secondo le previsioni del codice civile, tra cui, ad esempio, l’annullabilità dell’atto di adesione per i vizi del consenso di cui all’art. 1427 e ss. cod. civ.

Del resto, tale conclusione è dimostrata anche dal fatto che, in tema di effetti dell’adesione, il pagamento dell’importo dovuto, ovvero della prima rata, costituisce un presupposto fondamentale e imprescindibile di efficacia della stessa, con la conseguenza che, in difetto, la medesima procedura non può dirsi perfezionata, con permanenza, nella sua integrità, dell’originaria pretesa tributaria.

Tale permanenza di efficacia, come rileva anche la Suprema Corte nella sentenza richiamata, costituisce una previsione posta a garanzia del fisco e non anche del contribuente.

Il successivo inadempimento dell’accordo non consente quindi al contribuente di procedere alla impugnazione dello stesso, né dell’atto impositivo oggetto della transazione, giustificando, piuttosto, l’adozione, da parte dell’ente impositore, dei mezzi di coercizione per la soddisfazione del proprio credito (cfr., Cass., n. 10522/2024).

Il fatto che avverso l’accertamento definito con adesione sia preclusa l’impugnazione non può dunque che comportare la conseguenza sia della improponibilità di istanze di rimborso di quanto versato a perfezionamento dell’accordo e sia delle eventuali censure rivolte alla definizione transattiva.

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