La più grande democrazia del mondo si è dimostrata davvero tale

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Nel momento in cui sono stati resi noti gli exit poll delle elezioni indiane – in cui hanno votato più di 600 milioni di persone nel corso di due mesi – gli indiani si sono trovati a pensare di avere di fronte a loro altri cinque anni di erosione della democrazia.

I grandi nomi dell’informazione televisione indiana, che è perlopiù conformista, hanno iniziato a sgolarsi per dichiarare, quasi gridando, che il Bharatiya Janata Party (Bjp) del primo ministro Narendra Modi era lanciato verso un trionfo elettorale da record. Il loro sogno per il Bjp era riassunto nel grido di battaglia “Ab ki baar 400 paar!”, che significa “Questa volta oltre i 400!”. L’importanza di questo numero derivava dal fatto che la Camera bassa del Parlamento indiano, la Lok Sabha, ha 543 seggi. Il Bjp sperava di ottenere una schiacciante maggioranza di due terzi dei deputati che gli avrebbe permesso di modificare la Costituzione a suo piacimento e di imporre a tutto il Paese la sua visione di uno Stato nazionalista indù.

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Fortunatamente, gli exit poll erano sbagliati. Quando i voti sono stati effettivamente contati, il Bjp ha dovuto confrontarsi con una situazione molto diversa. Non essendo neppure riuscito a ottenere quella maggioranza semplice in Parlamento di cui godeva dal 2014, il Bjp è stato costretto ad arrancare verso il potere appoggiandosi ai partner dell’Alleanza nazionale democratica, il cui sostegno in passato non era stato necessario. Sebbene Modi si sia mostrato spavaldo nell’indossare per la terza volta consecutiva le vesti di primo ministro (è il primo leader politico a esserci riuscito fin dai tempi di Jawaharlal Nehru), in realtà è stato costretto a fare i conti con il fatto che intorno a lui si sono frantumati sia il culto della personalità che aveva faticosamente costruito nei dieci anni precedenti sia l’aura di invincibilità del Bjp.

L’esito elettorale ha inferto un colpo decisivo alla reputazione del primo ministro per quanto riguarda quella sua capacità di leadership che era stata a lungo indicata come la ragione principale della supremazia del Bjp nel contesto della politica indiana. Oltre al significativo calo di voti che si è registrato anche nei collegi in cui Modi aveva fatto campagna elettorale in prima persona, soprattutto nel bastione hindi-indù dell’Uttar Pradesh, il Bjp ha perso anche il simbolo più visibile del nazionalismo hindutva di Modi in quello Stato: la città-tempio di Ayodhya. Lì, a gennaio, il primo ministro aveva inaugurato un nuovo magni fico tempio dedicato alla divinità indù Rama, convinto che questa iniziativa lo avrebbe aiutato a raggiungere la vittoria. Un’ulteriore prova del fatto che il brand Modi stia rapidamente perdendo valore politico è arrivata dal collegio elettorale di Varanasi, un’altra città-tempio, dove il margine di vantaggio del suo partito è crollato di quasi il settanta per cento rispetto al 2019.

Così come la vittoria del Bjp ha rappresentato una specie di sconfitta, la sconfitta di un’opposizione in crescita è sembrata una vittoria. Sottostimata negli exit poll, l’alleanza Indian National Developmental Inclusive, guidata dal Partito del Congresso, ha ottenuto 234 seggi nella Lok Sabha. Questi numeri hanno chiarito che il Parlamento non può più essere considerato alla stregua di un timbro di gomma con cui convalidare l’agenda politica del Bjp. E ora il Parlamento indiano è di nuovo in grado di funzionare davvero come il luogo in cui si deliberano le leggi e si sottopongono a controllo gli eccessi governativi.

Le elezioni politiche indiane del 2024 si sono svolte sullo sfondo degli assalti condotti su più fronti dal Bjp alle istituzioni e ai valori fondamentali della nostra Repubblica. Già dai primi momenti della campagna elettorale, si avvertiva in modo palpabile la sensazione che in questo voto nazionale fosse in gioco la democrazia stessa. I “cani da guardia” della democrazia – il potere legislativo, il potere giudiziario e i media – erano stati indotti con le buone o con le cattive a sottomettersi al governo, mentre alcune agenzie che avrebbero dovuto essere autonome – come il Central Bureau of Investigation, l’Enforcement Directorate e l’Ufficio delle Imposte – venivano utilizzate dal Bjp come armi contro i dissidenti e gli oppositori politici. Era diventato impossibile sottrarsi al timore che queste elezioni fossero solo un esercizio di rati fica dell’autoritarismo.

Questo timore ha avuto un riflesso negli indici globali che misurano la democrazia, in cui l’India ha subito una batosta: Freedom House ha declassato il Paese da “libero” a “parzialmente libero” e l’Istituto svedese V-Dem lo ha riclassificato come “autocrazia elettorale”.

Dal 2014 al 2024, il Bjp ha messo a tacere qualsiasi istituzione – costituzionale, civica o appartenente al sistema dell’istruzione – che lo avesse criticato, gli avesse posto delle domande o avesse cercato di chiedere conto del suo operato. Il Bjp ha confuso se stesso con la nazione indiana, come se il primo ministro costituisse una sorta di sinonimo del miliardo abbondante di persone di cui era il governante. Ha screditato il dissenso tacciandolo di esercitare un’attività “antinazionale” e ha trasformato in imputati molti oppositori – studenti, giornalisti, attivisti della società civile e persino un prete gesuita di ottantaquattro anni – in base a delle leggi antiterrorismo draconiane. Sebbene il 97 per cento dei processi che erano stati avviati in base all’Unlawful Activities Prevention Act si sia poi concluso con un’assoluzione per mancanza di prove, il processo stesso si è configurato come una forma di punizione. Infatti, il fatto che l’accusato langua in prigione prima di essere processato e assolto costituisce già di per sé un potente disincentivo al dissenso.

Fenomeni altrettanto distruttivi per la democrazia indiana sono le manifestazioni di politica dell’odio, l’attivismo fanatico in nome della religione e la demonizzazione delle minoranze di cui i nazionalisti indù del Bjp sono maestri. Invece di fare proposte per frenare l’impennata del tasso di disoccupazione e dell’inflazione, il crollo del reddito pro capite e l’aumento delle disuguaglianze reddituali, che secondo alcune misurazioni sono addirittura più ampie di quanto lo fossero sotto il governo britannico, durante la campagna elettorale Modi e i suoi seguaci hanno vomitato veleno contro i musulmani indiani. E, mentre il Bjp attaccava circa 200 milioni di suoi concittadini, l’indulgente Commissione elettorale – che in teoria dovrebbe essere un’istituzione indipendente – guardava altrove senza intervenire.

Modi era arrivato a personificare un tipo di demagogia tale per cui una sua elezione avrebbe posto fine al processo democratico e avrebbe inaugurato una sua stagione al governo in qualità di infallibile leader supremo al di sopra delle insignificanti regole della democrazia. E così, nel giugno scorso, quando Modi è salito sul podio della Lok Sabha per prestare giuramento come membro del Parlamento, l’opposizione ha brandito contro di lui delle copie della Costituzione indiana. Il messaggio era chiaro: i comuni cittadini dell’India hanno usato gli strumenti della democrazia per punire il Bjp, che è stato al potere per un decennio, per le sue politiche divisive, per il suo malgoverno economico e per i suoi tentativi incessanti di smantellare quelle protezioni del sistema democratico che erano state costruite con tanta attenzione nel corso dei sette decenni e mezzo precedenti.

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I creatori dell’India moderna non avevano intenzione di dar vita a una democrazia utopica; il loro idealismo è sempre stato temperato dallo scetticismo, nella convinzione che, se non si fosse esercitata un’adeguata sorveglianza, la parola “democrazia” avrebbe potuto trasformarsi in un eufemismo per indicare il maggioritarismo e una sfacciata ricerca del potere sostenuta dal denaro e dalle maniere forti. Quando il Bjp è giunto a incarnare questo timore, “noi, il popolo indiano,” [proprio con queste parole inizia la Costituzione indiana, ndr] ci siamo mossi risolutamente in difesa della nostra Repubblica – e l’abbiamo riscattata.

Gli elettori indiani hanno fatto fare un passo avanti al loro Paese nel percorso verso quel «paradiso della libertà» in cui, per riprendere le parole del Premio Nobel Rabindranath Tagore, «la mente è senza paura e si può tenere alta la testa». Potremmo ancora inciampare lungo il cammino, ma ora la strada è più sgombra.

© 2024 THE NEW YORK TIMES COMPANY AND SHASHI THAROOR

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