“Eppur si muove” verrebbe da dire, parafrasando la celebre con cui Galileo Galilei accolse la condanna dell’Inquisizione, emanata in difesa del vecchio sistema tolemaico che prevedeva la fissità della terra con tutti gli altri pianeti, compreso il sole, che le giravano attorno. Galilei era invece un fautore dell’eliocentrismo, la teoria che Niccolò Copernico aveva dimostrato sul piano matematico. La centralità del sole portava all’inconveniente di negare un passo delle sacre scritture. Quei capitoli della Bibbia in cui si narra di Giosuè. Il condottiero di Israele ch’era in procinto di conquistare la terra promessa. Durante la terribile battaglia contro gli Amorrei, per evitare che scendesse la notte, lanciò il grido verso il cielo: “Fermati, sole, su Gabaon! e tu, luna, sulla valle di Aialon”. E fu allora che il Signore fermò il sole e la luna rimase immobile, per consentire a Giosuè di vincere la sua guerra contro i cinque Re e garantire al popolo di Israele la propria esistenza.
In tutti questi ultimi anni, specialmente nella passata legislatura, esprimere il benché minimo dubbio sui propositi della Commissione europea in tema di tema di ambiente era come bestemmiare, per essere poi puniti e costretti all’ostracismo. Intanto l’attivismo degli ambientalisti diventava sempre più petulante. L’arruolamento di Greta Thunberg, a soli 15 anni, dimostrava l’assenza di qualsiasi remora nell’utilizzare anche i minorenni nella giusta causa dell’attivismo. Senza contare poi le azioni sfociate in atti vandalici contro monumenti ed opere d’arte. Mentre in Europa l’olandese Franz Timmermans Commissario prima per il clima (presidenza Juncker) poi per il green deal (presidenza Von der Leyen) elaborava il piano più pazzo del mondo.
Stressando al massimo i contenuti dell’Accordo di Parigi, aveva sposato ed imposto la religione del massimo rigore nella lotta al riscaldamento globale. La UE, secondo quei postulati, doveva divenire “la prima zona al mondo a impatto climatico zero entro il 2050, al fine di ridurre l’inquinamento e ripristinare un sano equilibrio nella natura e negli ecosistemi” come si può ancora leggere sul sito del Consiglio europeo. Formula ricorrente in quasi tutti gli atti europei in tema di difesa ambientale e lotta al riscaldamento globale. Ma anche il riflesso di una memoria troppo corta. Anche all’inizio del terzo millennio la Commissione Europea, con la strategia di Lisbona, aveva vantato un altro impossibile primato: quello di “fare dell’Unione la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010″.Più che un libro dei sogni, un incubo. “Nel 2005, a metà del percorso concordato a Lisbona, – scriverà più tardi il MEF – si rileva un sostanziale fallimento della strategia europea per lo sviluppo varata nel 2000”.
Incurante di questi precedenti, l’UE non aveva esitato nel perseverare diabolicamente nell’errore. Quasi a dimostrare la saggezza degli antichi, secondo i quali “Giove toglie prima la ragione a coloro che vuol rovinare”. Questa volta, infatti, non si trattava di semplici proclami destinati ad affidare le parole al vento. Al contrario: si trattava di incidere sul corpo vivo dell’intero continente. Sulla sua struttura industriale: elemento caratterizzante la sua storia intera: non solo economica – finanziaria, ma politica e sociale. Dimenticando che ad un settore così importante era ed è legata la vita di milioni di uomini. Per cui ipotizzare impossibili transizioni nell’arco di pochi anni non poteva che significare la sua menomazione. Con conseguente distruzione di un equilibrio su cui, negli anni, era stata costruita la forza di un intero processo storico.
Oggi la crisi del automotive ci dice quanto folle fosse stata quella prospettiva. Le fughe in avanti tentate hanno disarticolato l’intero mercato dell’automobile. Di cui la crisi di Stellantis e Volkswagen (senza nulla togliere alle responsabilità del management) ne è la risultante, seppure di ultima istanza. Alle incertezze legate ad un’evoluzione non certo brillante della congiuntura di medio periodo (guerre, crisi del processo di globalizzazione, frantumazione delle catene del valore a livello internazionale, accresciuti problemi di sicurezza nelle forniture e nella logistica, e via dicendo) si sono sommate le indicazioni contraddittorie sugli standard tecnologici da prediligere. Rifiuto prospettico del motore endotermico, da un lato; esaltazione di quello elettrico integrale dall’altro. Senza minimamente considerare che quest’ultimo è poco più di un gadget: autonomia limitata, difficoltà di rifornimento (a meno di non possedere un proprio garage per caricare la batteria durante la notte) costo del prodotto esuberante. Risultato? Il crollo dei consumi. Un parco auto che non si rinnova perché l’endotermico, come uno iogurt, è a scadenza e perché l’elettrico costa troppo e non consente un’analoga fruizione. Ed ecco allora una crisi che si avvita su sé stessa, a meno di non scaricarne l’onere sulle casse dello Stato. A loro volta più che dissestate.
Era prevedibile? Certo che sì. A partire dalle scadenze. L’industria dell’automobile in Europa ha, alle sue spalle, cento anni di storia. La produzione di massa nasce all’indomani della Grande guerra e dura, perfezionandosi sempre più, fino ai nostri giorni. Secondo il green deal, invece, la transizione verso l’elettrico doveva avvenire in poco più di 10 anni. Per il 2035, infatti, era decretato lo stop alla produzione di motori endotermici e la sua completa sostituzione con il motore elettrico. Nello stesso tempo era varato un piano la cui ambizione era ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030, al fine di far divenire l’Europa, nel 2050, il primo Continente climate-neutral. Per questo l’energia, prodotta dall’uso di combustibili fossili, doveva diminuire dell’11.7% nel 2030, e le rinnovabili aumentare dal vecchio target del 2018 (32% del totale) al 42,5% nel 2030 puntando, però, al 45%.
Per ottenere un simile risultato erano individuate diverse priorità, concentrate sui settori dell’edilizia, dei trasporti e dell’industria. Settori da cui, secondo la Commissione, derivano il 75% delle emissioni di gas serra: primo responsabile dei cambiamenti climatici. Tra gli interventi più controversi, quello sui trasporti, considerato il responsabile del 71% delle emissioni complessive della UE. Per ridurne l’impatto, nel 2030 le relative emissioni dovevano essere ridotte del 50%. Cinque anni dopo, come già detto, la produzione di motori endotermici sarebbe stata posta fuorilegge, al fine di poter disporre nel 2050 solo di motori elettrici o all’idrogeno per i veicoli pesanti. Nel frattempo ciascun Paese membro avrebbe dovuto installare colonnine per la ricarica elettrica almeno una ogni 60 km e stazioni per il rifornimento di idrogeno nei punti più strategici del suo territorio.
Dagli edifici deriverebbero circa 1/3 delle emissioni UE. Anche in questo caso, quindi, si rendeva necessario una complessa azione di riconversione in grado di garantire un maggior efficientamento energetico. Per il 2030 i nuovi edifici dovevano essere tutti ad emissione zero. Caratteristica che, nel 2050, avrebbe dovuto caratterizzare l’intero parco abitativo. Forti di quel viatico i 5 stelle avevano anticipato i tempi, garantendo i famosi bonus del 110 per cento per l’edilizia. Con la conseguenza di ipotecare, per i successivi 10 anni, l’intera finanza pubblica italiana. Intanto il sistema degli UEETS (European Union Emissions Trading System) si estendeva ad altri settori. Noto anche come il principio del “chi inquina paga”, obbligava più di 11.000 centrali elettriche e fabbriche a richiedere un permesso per ogni tonnellata di CO2 emessa. I relativi permessi erano acquisitati attraverso aste ai prezzi determinati dall’incontro tra domanda ed offerta. I settori interessati erano e sono quelli dell’acciaio, del ferro, del cemento, dei fertilizzanti, dell’alluminio, della produzione di idrogeno e dell’energia da fossili, quindi estesi anche al trasporto marittimo ed aereo.
Per combattere, infine, tentativi di elusione, era stato creato il CBAM (“Carbon Border Adjustment Mechanism”). Un nuovo tributo ambientale volto a garantire che gli sforzi di riduzione delle emissioni di gas serra, in ambito Ue, non fossero contrastati da un contestuale aumento delle emissioni al di fuori dei suoi confini per le merci prodotte all’estero e poi importate nell’Unione europea. Il meccanismo CBAM comportava l’applicazione di un prezzo per le emissioni incorporate nei prodotti di alcune tipologie di industrie, paragonabile a quello sostenuto dai produttori UE nell’ambito del vigente sistema di scambio delle quote di emissione (EU ETS). Altra misura, infine, era quella di accelerare la realizzazione di carbon sinks ossia di pozzi in cui stoccare quantitativi di CO2, sottratti all’atmosfera mediante procedimenti di carattere industriale. La loro produzione doveva aumentare del 25%.
Come si vede un “vaste programme” avrebbe chiosato il Generale De Gaulle. Non che tutto fosse sbagliato. Anzi. Lo sviluppo tecnologico futuro, a partire dall’Intelligenza Artificiale, comporterà un consumo maggiore e non minore d’energia. Occorrerà pertanto provvedervi, superando in qualche modo l’utilizzo dei fossili. Il problema era ed è l’incompletezza del piano. O meglio la sua contraddittorietà. La stessa Commissione europea, in numerose comunicazioni, aveva infatti stimato che il suo sviluppo avrebbe richiesto investimenti pari ad oltre 900 miliardi di euro l’anno, fino al 2035. Dove prenderli era, tuttavia, rimasto un mistero. Da qui l’inevitabile giudizio su una sua astrattezza, destinata a produrre gli effetti negativi di cui si diceva agli inizi. Facile profezia, purtroppo. Anche se la critica non consola.
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