“I poveri sprecano più cibo, i ricchi mangiano sempre peggio”. Lo studio di due docenti universitari


Disse il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida un annetto fa: «Spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi perché cercando dal produttore l’acquisto a basso costo comprano qualità». La frase scatenò un’ovvia polemica, ma per qualcuno fu lo spunto per un’indagine fin qui inedita. Andrea Segrè e Ilaria Pertot, entrambi docenti universitari, documentano nel libro appena uscito La spesa nel carrello degli altri (edizioni Baldini+Castoldi) che non solo i poveri non mangiano meglio dei ricchi, ma che anche questi ultimi apparecchiano piuttosto male la propria tavola. «Quella affermazione che fece effettivamente discutere tutti, ci ha fatto riflettere. Dopo anni spesi in progetti per il recupero di cibo a fini caritativi e frequentazioni di mense sociali, la reazione a quell’affermazione di primo acchito fu semplicemente contraria e tale rimane – dice Andrea Segrè -. Ma è stata uno stimolo, ci siamo chiesti se ci fosse uno studio che indagasse questo tema, il che ci ha portati a una domanda successiva: quelli non sono considerati poveri alimentari, ovvero “gli altri”, come mangiano?». La spesa nel carrello degli altri cita le statistiche ma va oltre i numeri e attraverso tredici storie di “sopravvivenza alimentare” racconta che la povertà intanto non è solo quella economica, ma può essere educativa, sociale, lavorativa, e quello che emerge è un generale “impoverimento alimentare”. Insomma, anche se oggi si parla tanto di cibo sempre meno se ne conosce, o riconosce, il valore e di conseguenza si mangia peggio.

Chi sono gli autori

Andrea Segré, agronomo ed economista, insegna all’Università di Bologna e attualmente è consigliere speciale del sindaco dello stesso capoluogo dell’Emilia-Romagna per le politiche alimentari urbane e metropolitane. Ha fondato il progetto Last Minute Market, per il recupero e la redistribuzione delle eccedenze alimentari, ed è direttore scientifico dell’Osservatorio internazionale Waste Watcher e della Campagna Spreco Zero. Con la co-autrice e collega Ilaria Pertot ha deciso di devolvere i diritti d’autore del libro “La spesa nel carrello degli altri” al progetto “MenSana” avviato dalla Caritas in un quartiere di Bologna, per offrire non solo un pasto caldo a chi non ha risorse economiche, ma cibo sano a chi soffre di qualche disturbo di salute e per qualsiasi ragione non sia in grado di reperirlo da sé.

L’Istat ci dice che oggi in Italia ci sono 5,7 milioni di poveri “estremi”, il 10% della popolazione. Sono quelli che si nutrono di carità: eccedenze, surplus, scarti dei consumatori più ricchi. Nel libro però non vi siete limitati a leggere i numeri, che lavoro avete fatto?
«Abbiamo intrapreso un grande viaggio entrando nei comportamenti alimentari degli italiani e ne è emerso un quadro veramente desolante. Oltre ad aver capito chi sono i poveri alimentari, ci sono anche tantissimi altri che mangiano male per ragioni che spesso che non si incrociano in prima battuta con il cibo stesso. Per cui possiamo dire che in questo Paese della dieta mediterranea, del buon cibo, dei campanili alimentari e degli chef che spadellano in tv, tante persone mangiano male».

Questa situazione viene descritta attraverso tredici storie: il povero vero l’homeless, il ragazzo immigrato di seconda generazione, la madre single, il padre separato, la famiglia monoreddito, quella con due lavori, l’imprenditore, l’agricoltore… non sono persone fisiche reali, ma 13 identikit di categorie di persone che si rapportano diversamente al cibo. Come avete ricavato questi 13 profili?
«L’indagine si basa sull’analisi dettagliata di un ampio numero di casi individuali, 2.052 persone, osservate e intervistate nell’atto di acquistare il proprio cibo in vari contesti e in varie città italiane da nord a sud. Incrociando i dati sono emersi 13 identikit a cui abbiamo dato un nome e un profilo. Come dice nella prefazione il cardinale di Bologna Matteo Zuppi, dietro ogni statistica c’è una vita e noi abbiamo cercato di entrarci cogliendone la complessità. I fattori che condizionano direttamente e indirettamente l’alimentazione sono certamente il reddito, che è dato da un certo tipo di lavoro più o meno precario, ma anche l’educazione, l’appartenenza culturale, il contesto sociale. Tutti elementi che determinano i consumi, la malnutrizione, l’insicurezza alimentare e lo spreco. Perciò parliamo di impoverimento alimentare, ovvero di una condizione squilibrata che sta crescendo e che ha conseguenze negative sulla salute, sull’ambiente, sull’economia».

Lo spreco è insieme causa ed effetto di questo impoverimento.
«Negli ultimi tre anni è emerso che i poveri alimentari sprecano di più. Uno pensa: sei povero, compri meno, sprechi meno, invece è dimostrato che acquisti poco e anche male. Ad esempio se prendi la frutta a bassissimo costo perché è arrivata alla fine, appena arriva a casa è rifiuto alimentare. Chi è povero e fa una spesa a basso o bassissimo costo alla fine spreca il 17% in più rispetto alla media. Abbassando il livello dell’acquisto si incappa poi più facilmente in cibo spazzatura e questo ha anche un impatto sulla salute, quindi queste persone mangia peggio e ti ammali di più».

Durante la pandemia l’Osservatorio Waste Watcher aveva registrato una diminuzione degli sprechi alimentari. Ora il viaggio diretto all’obiettivo “spreco zero” si è complicato di nuovo?
«Il lockdown ci ha dimostrato il valore della cucina domestica, eravamo chiusi in casa abbiamo fatto una spesa mirata, autoprodotto e cucinato. Ma quelle buone attitudini in gran parte si sono perse in fretta. L’incremento dello spreco nel 2024 è del 45% sul 2023, 680 grammi settimanali a testa, ossia miliardi di euro, acqua, suolo, energia, fertilizzanti utilizzati per niente che hanno generato un impatto sull’ambiente e la salute. Lo “spreco zero” sarebbe assolutamente alla nostra portata ma non ci si arriva perché non c’è attenzione, non c’è educazione e di cibo ne parliamo tanto ma non sappiamo più bene cosa significhi e la cucina domestica la stiamo perdendo».

Il recupero delle eccedenze è un meccanismo che può cambiare l’economia?
«Non risolve il problema della fame e noi vorremo che lo spreco non ci fosse anche quando serve a dare da mangiare ai più poveri. Facciamolo pure, ma recuperare cibo è solo un tampone, intanto troviamo il sistema più sostenibile per farlo: raccolgo, trasporto, stocco refrigero e redistribuisco a chilometro zero. Per questo è nato a suo tempo il Last Minute Market, per dare una cornice efficiente e sostenibile a qualcosa che si faceva già».

In questo quadro chi, invece, non mangia male? Ci sarà…
«Se vogliamo prendere come riferimento la dieta mediterranea, altro baluardo narrativo nel nostro Paese, e se c’è da fidarsi dei dati dell’Istituto superiore di Sanità che ha pubblicato qualche settimana fa uno studio, “Arianna”, chi pratica realmente la dieta mediterranea nel nostro paese è il 5% della popolazione. Per sottrazione il 95% di noi mangia più o meno male. C’è un campanello d’allarme forte. Poi l’alimentazione non è solo una tabella nutrizionale. Ad esempio la maggior parte di chi non pratica la dieta mediterranea sono giovani che fra l’altro ritengono che la dieta mediterranea sia cara».

Come invertire la rotta?
«Affrontare il tema non più dal punto di vista globale ma locale e promuovere finalmente una educazione alimentare nelle scuole, ma non come una parte dell’ educazione civica. Occorre qualcosa di più strutturato che riporti il cibo nella nostra educazione e formazione, il che vale anche per i nostri insegnanti. E’ un investimento di lungo periodo ma prima o poi bisognerà farlo perché se i dati ad esempio di sovrappeso e obesità delle fasce più povere che poi si devono curare sono un costo per la collettività, se non fai prevenzione a partire dal cibo. E’ stato talmente detto e ridetto ma incredibilmente non c’è alcuna attenzione. Parliamo di dieta mediterranea, grandi chef, poi però il cibo in realtà è qualcosa di estraneo e virtuale che si trova sempre e che deve costare poco».



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