Sciopero e crisi industriale, parla il ceo di Yamamay: “Sindacati lontani dai lavoratori. Bisogna combattere contro un venerdì di incassi perduti”
“Usare lo sciopero come strumento politico e d’opposizione non risolve un bel nulla per i lavoratori”. Gianluigi Cimmino, Ceo di Yamamay e Carpisa, non ha peli sulla lingua e commenta con affaritaliani.it l’ennesima giornata di caos. Un nuovo venerdì nero che paralizza l’Italia: dai trasporti alle attività commerciali, passando per i lavoratori pubblici, il Paese si ferma.
Cimmino alza la voce contro una situazione che danneggia ulteriormente un’economia già malata: l’allarme, lanciato qualche giorno fa da Confindustria evidenzia quanto la crescita dell’Italia rischia di arenarsi sempre più nel quarto trimestre, mentre le industrie della moda e dell’automotive viaggiano ormai con il freno a mano tirato.
Se lo sciopero non è la soluzione, qual è, secondo lei, il modo più efficace? Non crede che senza pressione qualcosa rischi di non cambiare mai?
La pressione non deve essere un tipo di azione volta a creare disordine sociale o una forma di ricatto verso altri lavoratori. Ci sono dei tavoli dove si può fare pressione e discutere, e ci sono modalità di fare sciopero nel rispetto degli altri. Se invece lo sciopero diventa uno strumento politico, non di pressione per i diritti dei lavoratori, ma di opposizione politica, allora nessuno sta mettendo al centro le legittime istanze che sono alla base dello sciopero. Quello che emerge è soltanto un grandissimo malcontento da parte di chi è impossibilitato ad andare a lavorare, a circolare, a viaggiare. E quindi i motivi oggettivi dietro lo sciopero vanno in secondo piano, anche come comunicazione e messaggio che arriva agli italiani.
È una comunicazione sbagliata, secondo lei?
Creare un divario nel mondo dei lavoratori non porta giovamento a nessuno, se non a chi, attraverso lo sciopero, vuole fare opposizione politica.
Lei critica lo strumento dello sciopero, ma come Ceo quali passi concreti crede si debbano fare per aprire un dialogo costruttivo con i sindacati?
I sindacati, secondo me, dovrebbero avere una visione più realistica, perché anche questa modalità di sciopero denota che il sindacato, ormai da anni, è lontano dal mondo del lavoro. Un sindacato che emerge soltanto quando bisogna fare opposizione politica, ma dov’era in questi anni, quando gli stipendi sono rimasti fermi? Dov’era quando ha consentito a Stellantis di prendere soldi dal governo e chiudere gli stabilimenti? Questo dobbiamo chiederci. Oggi il sindacato è presente perché vuole bloccare il Paese: non so come venga percepito questo dal mondo del lavoro. Almeno, io lo so perché ascolto le istanze giuste dei lavoratori e sento anche cosa prova il mondo del lavoro nei confronti dei sindacati.
Gli stipendi stagnanti da anni sono un problema noto. Secondo lei, dove risiede la maggiore responsabilità?
Il problema degli stipendi è una questione realissima per il Paese: se non crescono, non cresceremo noi. In questo momento la nostra crescita economica non dipende più dal manifatturiero, che ormai da diversi mesi perde su tutti i fronti. La crescita è data soltanto dal turismo, che ci sta salvando nei mesi più caldi, durante l’estate. È il settore che porta valore aggiunto al PIL. Per il resto, stiamo perdendo.
La crisi della moda e quella dell’auto stanno trascinando l’industria italiana verso il basso. Come imprenditore, sente che ci sia una reale attenzione da parte del governo verso questi settori?
Non manca l’attenzione. Il governo agisce in base a quello che ha a disposizione, ma ciò che ha a disposizione, per esempio nella moda, è un’eredità del passato. Abbiamo una coperta che, purtroppo, si è fatta corta a causa dei soldi dati a pioggia negli ultimi anni con bonus vari.
L’azione del governo si inserisce in una congiuntura internazionale particolarmente difficile. Per esempio il lusso vive di esportazioni, ma una serie di mercati sono già da tempo in difficoltà, senza contare che anche il mercato interno non sta crescendo nei consumi. Ecco perché gli stipendi devono crescere. Ben venga anche il bonus Natale, che sicuramente mitigherà la situazione attuale. Il governo, onestamente, si sta muovendo, però, in questo contesto, se si crea disordine sociale, raggiungere gli obiettivi diventa ancora più difficile. Perché fare sciopero proprio a Natale? È il periodo dell’anno con i consumi più elevati, eppure questo creerà difficoltà per molte aziende e potrebbe portare a uno scenario negativo sul fronte occupazionale, che, almeno per ora, è l’unico settore che regge.
Tra l’altro, lo sciopero era stato indetto anche nel giorno del Black Friday…
Certo, è sempre mirato ai momenti di maggiore circolazione, quindi è pensato per dare più fastidio nei momenti più caldi.
Non crede invece che nel settore moda la dipendenza dai consumi cinesi sia diventata un boomerang?
Quando raggiungi un livello di prezzi insostenibile per il consumatore, poi diventa un boomerang. Il lusso negli ultimi anni vendeva di meno ma aumentava sempre di più i prezzi. Quindi, margini incredibili, ma vendite in calo. Noi che facciamo una moda più accessibile, non abbiamo alzato i prezzi se non in seguito all’inflazione, e per questo il consumatore ci riconosce soprattutto in queste fasi difficili, come un valore aggiunto. Questo rapporto con il consumatore, il lusso, l’ha perso. Stessa cosa con le auto…
Ovvero?
Si fermavano le fabbriche, si produceva meno e si aumentavano i prezzi, e fino a quando ha retto, tutto andava bene. Ma quando è finita la bolla post-pandemia, le macchine si sono fermate e non sono più uscite dai concessionari.
Lei è d’accordo con questa politica di contenimento adottata da alcune aziende, o di taglio dei costi come è successo in Stellantis?
Stellantis li ha fermati apposta gli stabilimenti perché ormai è un’azienda francese e quindi doveva distruggere e sistemare l’automotive in Italia. È un caso a sé, per il quale dovremmo scendere tutti in piazza. Se, da italiani, abbiamo dato dei soldi a un’azienda, e questi soldi sono andati a finire nei dividendi della proprietà, mentre gli stabilimenti venivano chiusi, questo dovrebbe indignare tutti. È clamoroso.
In qualità di Ceo di Yamamay e Carpisa, due realtà rilevanti nel settore italiano, come si sta muovendo per contrastare questa crisi dell’industria, anche in ottica di sostenibilità?
Cerco innanzitutto di lavorare di più e difendere il lavoro, cercando di avere la massima attenzione sugli investimenti necessari per far crescere l’impresa nei prossimi anni: sostenibilità, innovazione, tutte quelle aree dove non si può perdere un colpo. Le aziende si portano avanti attraverso l’innovazione e anche su questo ha sbagliato l’automotive: se non si investe in innovazione, prima o poi ci si ferma. Bisogna essere competitivi sul mercato e avere sempre un prodotto con un ottimo rapporto qualità-prezzo, combattendo anche contro la perdita di incassi per uno sciopero, che si verifica, ad esempio, in un venerdì come questo. Io stesso non ho esitato a far sentire la mia voce anche durante il periodo del Covid.
Ha visto altri imprenditori come lei muoversi in questo modo?
No, non vedo nessuno. In Italia, su certi argomenti, è molto difficile esporsi. È un tema delicato, quello del lavoro. Se uno prende posizione, può essere facilmente additato come l’imprenditore che non capisce cosa non va dalla parte dei lavoratori. C’è sempre questo pregiudizio sociale, ma noi, imprenditori e lavoratori, dobbiamo essere tutti dalla stessa parte: è un fronte unico e deve esserlo anche per i sindacati, che dovrebbero difendere i diritti dei lavoratori, ma non bloccando il Paese o creando cattiveria e malumore. Non sono scene belle.
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