Nazionalismo esclusivo e nazionalismo imperiale: due facce spesso speculari di progetti politici che negli anni ’90 si sono scontrati sanguinosamente nell’area balcanica, e che oggi si combattono in modo ancora più feroce per il destino dell’Ucraina. Un’analisi
Nella storia si possono catalogare due tipi di nazionalismi. Entrambi identificano un popolo con un territorio e pretendono il controllo assoluto su quel territorio adducendo motivazioni storiche e culturali che, a chi lo propone, paiono indiscutibili. Ma hanno forme molto diverse, che possono apparire, ad uno sguardo superficiale, quasi opposte.
Il primo può essere definito un nazionalismo integrale, esclusivo, ed è quello che più identifichiamo con la parola “nazionalismo”. È un modello politico ossessionato dalle differenze, che non permette sbavature e pretende una assoluta uniformità interna e una netta divisione con l’esterno.
“Uniformi” e “divise” quindi; il nazionalismo presuppone la guerra, la prepara, la considera l’unico, inevitabile strumento per raggiungere il proprio obiettivo: uno stato “etnicamente” puro, ben delimitato da confini netti e insuperabili.
Questo tipo di nazionalismo si adatta ai piccoli popoli, spesso circondati da comunità più forti o soggette per lungo tempo a imperi multinazionali all’interno dei quali era necessaria una forte compattezza per mantenere identità nette e separate.
Nella storia balcanica ne sono un esempio i nazionalismi sloveno, albanese, romeno, greco. Quando hanno potuto creare i propri stati-nazione, tra Ottocento e Novecento, queste élite nazionali hanno continuato a rivendicare territori più vasti in nome di un grande passato, di una diffusione culturale più ampia, di una religione o di una lingua diffuse anche oltre i confini.
Ma esiste anche un altro tipo di nazionalismo, apparentemente più inclusivo, più disponibile all’accoglienza, più tollerante e aperto. È un nazionalismo che potremmo definire “imperiale”, che spesso fatichiamo a identificare come nazionalismo, specie se lo guardiamo da fuori, immuni dalle sue pressioni politiche.
Questo modello politico è spesso appannaggio di popoli più forti e potenti, che controllano territori più vasti e fanno riferimento a comunità più numerose. A differenza del nazionalismo classico, questa visione accetta qualche lieve differenza (linguistica, culturale, perfino religiosa), purché il riferimento politico resti il centro della comunità.
Le minoranze, le identità miste, meticce, sono incluse nel progetto, perché finiranno inevitabilmente per adeguarsi al modello identitario predominante. Non c’è bisogno di eliminarle o allontanarle, non è necessaria la pulizia etnica, ma è prevista una lunga fase di “conversione” alla comunità dominante.
Ovviamente nella realtà fattuale questi due modelli non sono così radicalmente contrapposti. Anzi in alcuni casi si presentano entrambi nella storia di una specifica identità nazionale, come per quella serba.
L’idea nazionale serba si è costruita in forma “difensiva”, come rivendicazione di una specifica identità linguistica e religiosa nei confronti di uno stato considerato oppressore, ovvero l’Impero Ottomano. Una volta costituito il proprio stato indipendente (nel corso dell’Ottocento), l’élite politica serba ha cominciato a rivendicare nuovi territori, conducendo la propria espansione territoriale verso la Macedonia, il Kosovo, il Sangiaccato, e poi Vojvodina e Bosnia Erzegovina, con un approccio sempre più inclusivo.
In seguito alla scomparsa dell’Impero Austroungarico dopo la prima guerra mondiale, quella che avrebbe dovuto essere una “Grande Serbia” etnicamente pura si è però trasformata in una realtà statale più grande, chiamata significativamente Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Come dimostrano i continui conflitti nazionali del primo decennio jugoslavo, l’élite politica serba era culturalmente impreparata a gestire un territorio tanto vasto e pluriforme. La svolta arriva con il cosiddetto “Jugoslavismo integrale” adottato da Re Alessandro I nel lustro 1929-1934. Il nuovo progetto non pretende l’uniformazione di tutte le comunità al modello serbo, ma propone una identità super partes, jugoslava, che inevitabilmente si adeguerà alla forza attrattiva della comunità maggioritaria.
Si tratta di una prospettiva imperialista, solo apparentemente aperta e inclusiva: i bosgnacchi possono restare musulmani, i macedoni possono continuare a parlare il loro “strano” dialetto, i montenegrini possono celebrare le proprie glorie passate; purché tutti si identifichino sostanzialmente in una categoria identitaria più grande dominata dalla componente serba.
Dopo l’assassinio di re Alessandro a Marsiglia nel 1934, nello spazio jugoslavo tornano a dominare le prospettive “micro-nazionaliste” in competizione fra loro. Una competizione che si concretizza prima con una sostanziale spartizione del territorio (lo sporazum del 1939) tra le élite serbe, croate e slovene, e poi con i tentativi di creazione di territori etnicamente puri attraverso lo sterminio reciproco condotti dalle forze più estremiste croate e serbe (cetnici e ustascia) durante la seconda guerra mondiale.
La Jugoslavia federale del secondo dopoguerra segue logiche politiche molto diverse, cercando di mantenere l’impianto identitario pre-esistente in un gioco di equilibri quasi impossibile da mantenere.
Con la crisi del sistema, negli anni Ottanta, risorgono invece i progetti politici precedenti, e nuovamente appare evidente la contrapposizione fra questi due modelli entrambi nazionalisti.
Da una parte il modello esclusivo proposto dalle élite slovena e croata ma anche dai fautori della Grande Serbia come Drašković e Šešelj; dall’altra l’imperialismo nazionale serbo rappresentato dalla leadership di Milošević.
Molti osservatori esterni si sono lasciati ingannare, all’epoca, dalla facciata socialista e “unitaria” mostrata pubblicamente dal leader jugoslavo. Ma oggi possiamo dire chiaramente a cosa ha portato lo scontro fra quei due progetti: un bagno di sangue nelle innumerevoli zone multietniche della Jugoslavia.
Tempo fa ho proposto alcune considerazioni in merito all’interno di un volume collettaneo sul ritorno della guerra in Europa. Fermo restando le grandi differenze storiche e geografiche, credo che i rapporti fra Ucraina e Russia siano impostati su una dinamica generale simile.
Anche in questo caso il partner minore, l’Ucraina, ha sviluppato un modello nazionalista esclusivo. A causa di una specifica dinamica storica che somiglia parzialmente a quella croata, tra i riferimenti storici e culturali dell’identità ucraina rientrano anche i collaborazionisti dei nazisti Bandera & co.
Nella logica nazionalista russa invece l’Ucraina fa parte del proprio spazio nazionale, non perché non ne venga riconosciuta la specificità storica e culturale, ma semplicemente perché nella grande nazione russa c’è spazio per molte differenze, purché, ovviamente, Mosca e la sua leadership non siano messe in discussione.
Di tutto questo, nelle analisi dei media occidentale non sembra esserci traccia. Negli anni Novanta gli opinionisti si dividevano fra filo “nazionalisti” (spesso identificati tout court come “fascisti”) croati, sloveni o bosgnacchi, e filo “socialisti” serbi.
Oggi ugualmente sembra non si riesca a comprendere come il nazionalismo ucraino “esclusivo” e quello russo “inclusivo” siano due facce della stessa medaglia. Entrambi in definitiva hanno l’intento di imporre un potere unico in un ampio territorio di frontiera dove gli abitanti non hanno mai voluto né dovuto scegliere un’appartenenza univoca.
Il volto di questa ambiguità e il legame simbolico fra questi due mondi è, ai miei occhi, la figura di Limonov, lo scrittore e politico recentemente tornato di moda per il film a lui dedicato.
Russo cresciuto in Ucraina, dopo il lungo esilio e la promettente carriera letteraria, Limonov si trasferisce a Mosca negli anni Novanta per fondare un movimento politico che interpreta in maniera estrema la prospettiva nazionale-imperiale russa.
In questo senso non può non identificarsi con l’analogo approccio rappresentato da Milošević in Jugoslavia. È questo approccio che porta nel 1992 il “famoso scrittore russo” (come lo definisce uno stupito Radovan Karadžić) ad impugnare una mitragliatrice e sparare a casaccio dalle posizioni serbe sulla popolazione indifesa di Sarajevo.
In fondo Limonov avrebbe voluto fare la stessa cosa nel suo paese, avrebbe amato sparare sugli ucraini che non si adeguano al modello russo, che non ne condividono il progetto imperiale, come sta facendo oggi Vladimir Putin.
Mentre un’Ucraina in stato di guerra da dieci anni rivendica la propria microappartenenza celebrando i propri “padri della patria”, ancorché nazisti, il nazionalismo russo opera per ristabilire un dominio imperiale su territori e popoli che considera parte del proprio stesso spazio culturale.
Se Putin is making Russia great again, Zelensky combatte per un’Ucraina etnicamente pura, ripulita da qualunque differenza nazionale.
Dopo tanti mesi di guerra e rifiuto di qualunque forma di diplomazia, oggi si comincia a parlare di un possibile piano di pace per quei territori devastati. Tutti si augurano che le armi tacciano il prima possibile. Ma se non si mettono radicalmente in discussione entrambi gli approcci nazionalisti, qualunque progetto di pace è destinato all’insuccesso.
Qui come altrove, bisognerebbe superare la logica di contrapposizione nazionale, tornando a considerare gli individui come cittadini a pieno titolo, ognuno con la propria legittima complessità, con le proprie molteplici identità (politiche, culturali, linguistiche, religiose, territoriali…) non come masse informi di sudditi da inglobare forzatamente in una nazione o in un’altra.
Una partizione etno-nazionale, come quella già realizzata in Kosovo o in Bosnia Erzegovina negli anni Novanta, si è dimostrata ampiamente fallimentare: innaturale rispetto alle identità meticce reali e foriera di nuovi scontri, nuove tensioni, nuovi conflitti.
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