Georges Bataille mise a punto la nozione di dépense (spreco, dissipazione) connettendola a quella che gli antropologi avevano individuato tra i nativi nordamericani, il potlach, la cerimonia in cui si distruggevano gratuitamente beni di grande valore per affermare o riconquistare un proprio rango, un’esistenza di piena dignità. È qualcosa che fa pensare alla vicenda rovinosa di molte star novecentesche la cui parabola, breve e occidua, manifesta qualcosa di così tenacemente autodistruttivo da sembrare deliberato. Una vicenda che continua a ripetersi specie fra gli sportivi e, quanto a costoro, ne è esempio paradigmatico Paul Gascoigne, genio calcistico sovranamente sprecato, gettato via con tutta quanta l’esistenza di qualcuno che oggi esce tristemente dall’anonimato solo per i suoi eccessi alcolici, le risse nei pub e i ricoveri coatti. Nel suo caso la prematura eclissi del campione sembra avere anticipato per allegoria lo stato di deriva della stessa persona ma è giusto al campione che Fabio Bartoli dedica il profilo appassionato fino allo struggimento, Gascoigne Grande impagabile infelice Gazza (Garrincha Edizioni, «Le figurine», pp. 133, euro 8.00). Quello di Gazza è un destino minato ab origine da una tara sociale come da una ipoteca psicologica, perché nato a nel ’67 dalle parti di Newcastle (Inghilterra nordorientale, zona carbonifera, celebre per la cantieristica navale) appena decenne si vide morire vicino, per incidente stradale, il fratello del suo migliore amico. Ne riceve un senso di colpa mai smaltibile che spiega la perpetua dipendenza di Paul dai palliativi promessi da cibo e bevande, in un primo tempo patatine e barrette Mars poi, precocemente, l’alcol in tutte le sue possibili declinazioni a partire dalla birra che ingurgita a dosi esorbitanti.
Perciò il suo fisico non è à la page (un principio di pancia e talora un visibile doppiomento confliggono con l’immagine vulgata dell’atleta) ma innata è la classe calcistica di chi esordisce a 17 anni fra i bianconeri del Newcastle e subito presenta un profilo tecnico inconfondibile. Gazza, così lo chiamano per sfotterlo ma lui ne farà una divisa, sta in campo flottando tra i ruoli del rifinitore e della punta: del primo ha il tocco delicato e la pronta inventiva, del secondo la progressione in dribbling, la stoccata e persino il colpo di testa (pure se misura non più di 1 metro e 77). Così Bartoli ne integra il profilo: « è potente, compatto e dal baricentro abbastanza basso che gli permette di proteggere efficacemente il pallone spalle alla porta. È difficile davvero strappargliela la palla dai piedi, sia per l’abilità del controllo sia per quel fisico tarchiato e pronto a difenderla costi quel che costi, certo, ma c’è da dire che sul campo il giovane Gazza dimostra anche una certa grinta».
Nel 1988 viene ceduto al Tottenham in cui gioca Gary Lineker per una cifra allora iperbolica (Sir Alex Ferguson che era già in parola con lui per il Manchester United non glielo perdonerà mai) e a Londra, sotto la torre della radio, nel vecchio stadio di legno in White Hart Line, Gazza rimane tre stagioni con gli Spurs e nel 1991 vince una prestigiosa FA Cup (vulgariter la vecchia Coppa d’Inghilterra) in finale contro il Nottingham Forest, la stessa partita in cui però subisce un gravissimo infortunio al ginocchio che lo esclude per un anno dal campo da gioco. Ha già esordito in nazionale (il tabellino complessivo sarà comunque più che dignitoso: 57 gare e 10 gol) e disputa i Mondiali di Italia ‘90 con un quarto posto, finalina a Bari proprio contro gli azzurri, cui è legata una fra le mille trovate, intemperanze, eccessi che ne illustreranno la leggenda.
Pare infatti che Gianni Agnelli in persona fosse andato a fine gara nello spogliatoio per congratularsi con lui e proporgli un trasferimento alla Juventus, ma pare anche che Gazza nemmeno lo ascoltasse e imperterrito, mentre colui parlava, con la mano gli battesse a cadenza ora sulla testa ora sulla spalla. L’elenco delle trasgressioni, vere o presunte, è stato fatto molto volte, a partire dalle curiose invettive sui costumi sessuali di Margaret Thatcher che peraltro mandò platealmente a quel paese durante un ritiro della nazionale. Fatto sta che nel ‘92 lo acquista di Lazio di Sergio Cragnotti che non è ancora da scudetto ma arriva al quinto posto e si qualifica per la Coppa Uefa: qui gli giocano accanto calciatori navigati quali il battitore libero Cravero e lo stopper Gregucci, centrocampisti di rilievo come Fuser, Winter e Doll nonché due punte formidabili, Karl-Heinz Riedle e Giuseppe Signori. E in panchina c’è un gentlemen, Dino Zoff, che è la sua antitesi ma tuttavia, senza indulgenze, mostra di comprenderlo anche quando non lo giustifica. Gazza alterna buone prestazioni (un gol nel derby lo incide nel cuore dei tifosi) a periodi di latitanza.
Nel ’95 è ceduto ai Rangers di Glasgow e l’anno dopo disputa in casa il suo ultimo sfortunatissimo Europeo con l’Inghilterra sconfitta in semifinale dalla Germania, quando in tv si vede piangere Gazza ammonito e dunque escluso dalla eventuale finalissima. Quello scozzese è comunque un campionato minore e Gazza può prodigarvi con agio il suo talento ancipite, di campione e di spericolato filibustiere: con i Rangers, la squadra dei protestanti, dopo un gol ai cattolicissimi del Celtic va a sfotterli sotto la curva mimando il gesto del flauto, che è un loro simbolo religioso. Seguono, in parabola discendente, campionati in squadre minori e un’esperienza nel Boston United (2004) prima del ritiro.
Poi viene tutto quanto sappiamo della vita grama di Gazza la cui ultima uscita risale al marzo scorso quando dichiara in pubblico di avere esaurito ogni dépense e di essere un «ubriacone triste» e senza più fissa dimora. È probabile che su di lui non smetteranno mai di infierire i tabloid ma per fortuna con qualche isolata e sia pure tardiva resipiscenza, come ci ricorda Bartoli a proposito del Daily Mirror e dello storico editoriale dal titolo «Mr. Paul Gascoigne: An Apology», dove si sostiene, alla lettera: Gazza non è più un grasso imbecille ubriaco. È, infatti, un genio del calcio.
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