Nel 2022 già spendevamo circa il 4,4% del Pil solo per ripagare gli interessi sul debito, contro una media UE dell’1,7%. Secondo le previsioni, senza un cambio di rotta potremmo arrivare al 5% entro il 2030. Già oggi, oltre l’11,6% della spesa pubblica serve a pagare gli interessi, più di quanto si destina all’istruzione. Senza interventi, questa spirale rischia di trascinarci a fondo. La situazione appare tanto più cupa se la consideriamo in parallelo al terzo grande problema: l’invecchiamento della popolazione.
Con una popolazione anziana, i costi per pensioni e sanità lievitano. Se mancano i giovani, il rapporto tra lavoratori e pensionati diventa insostenibile. L’Italia è tra i Paesi più vecchi del mondo, con un numero di nascite troppo basso per invertire la rotta in tempi brevi. Questo significa che la spesa pubblica dovrà coprire sempre più pensioni e cure mediche, proprio mentre una parte consistente delle entrate se ne va in interessi sul debito.
Senza la spinta del settore edilizio, dopo il 2026 torneremo a fare i conti con questi problemi, aggravati dal passare del tempo. Prima del 2020, la crescita era quasi inesistente.
L’Italia aveva sofferto la crisi del 2008, quella dei debiti sovrani, e poi arrancato per oltre un decennio, con il Pil fermo al palo. Nel 2016-2017 era cresciuto un po’ più dell’1%, ma già nel 2018 la crescita era di nuovo sotto tale soglia. Politiche di austerity, alte tasse e pochi investimenti in innovazione ci avevano portato a una stagnazione cronica. I bonus edilizi e il PNRR ci hanno concesso una tregua, ma non una cura miracolosa.
Se non faremo nulla, dopo il 2026 l’Italia rischia di ripiombare nel pantano: bassa crescita, alto debito, spesa per interessi in continuo aumento, anziani sempre più numerosi e pochi giovani in grado di sostenere il sistema. Questo scenario, però, non è inevitabile. Per evitare il collasso, occorre intervenire sui problemi strutturali, a partire dalla scarsa innovazione, dalla competitività limitata, dalla produttività troppo bassa. Senza investimenti in ricerca e sviluppo non si cresce davvero. L’Italia investe solo l’1,5% del Pil in R&S, contro il 3,1% della Germania e il 2,1% della Francia. Se non recuperiamo questo ritardo, resteremo schiacciati dalla concorrenza internazionale, incapaci di aumentare stipendi e occupazione qualificata. Meno innovazione significa meno capacità di produrre valore, stipendi bassi, fuga di cervelli e conti pubblici sempre più difficili da sostenere.
Anche il mercato del lavoro soffre di questi problemi. Con salari bassi, meno posti qualificati e pochi investimenti, i giovani laureati faticano a trovare opportunità adeguate. Nel frattempo, la povertà assoluta ha raggiunto l’8,5% delle famiglie, e oltre il 10% dei lavoratori dipendenti non guadagna abbastanza per superare la soglia minima necessaria a vivere dignitosamente.
Il rischio è che, dopo il 2026, senza i bonus e gli stimoli temporanei, il paese ripiombi in una situazione di stagnazione economica, maggiore indebitamento e impoverimento generale.
L’immigrazione potrebbe alleviare l’invecchiamento della popolazione, ma è difficile da gestire in modo ordinato e non incontra sempre il favore dell’opinione pubblica. Intanto il tempo passa, il 2026 si avvicina, e con esso la fine degli incentivi che hanno garantito l’attuale boccata d’ossigeno. Se non sfrutteremo questi anni per mettere in campo riforme serie e investimenti strategici, il declino non potrà che peggiorare.
In definitiva, l’allarmismo non nasce dal nulla. La nostra economia gode oggi di un’illusione di forza, garantita da interventi eccezionali e debiti sempre più ingombranti. Senza un cambiamento di rotta, il 2026 potrebbe davvero segnare l’inizio di una lunga, dolorosa stagione di declino. Nulla è scritto nella pietra, ma il tempo per intervenire si accorcia. Ora sta ai governi, alle imprese e ai cittadini stessi decidere che futuro vogliono costruire per il Paese.
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