Come organizzare forme efficaci di opposizione? I cambiamenti sociali e politici più rilevanti sono stati iniziati da frange marginali che hanno saputo aggregare e coinvolgere. Bisogna esserne consapevoli e, poi, costruire una visione di futuro, usare quanto è nella propria disponibilità per sottrarre consenso al potere, realizzare nel momento in cui si lotta pratiche di condivisione e di vita che prefigurino ciò verso cui si tende.
Sabato 30 novembre, presso il Centro interculturale delle donne Alma Mater di Torino, si è svolto il seminario nazionale Ambiente e grandi opere tra politica, movimenti e informazione, organizzato dal Controsservatorio Valsusa. È stato un prezioso momento di scambio e confronto tra realtà e movimenti in lotta per una società più sostenibile e giusta. Vorrei qui riprendere alcune considerazioni a proposito delle forme di lotta da mettere in campo per affrontare efficacemente la stretta repressiva che avremo di fronte con l’approvazione del decreto sicurezza e per immaginare e costruire concrete alternative al “sistema di guerra” che permea ormai diversi ambiti della politica e della società.
Nella prospettiva della cultura e dell’esperienza dei movimenti nonviolenti, un concetto centrale è quello che il potere si contrasta sottraendogli consenso, indebolendo i pilastri sui quali si regge, attraverso la non collaborazione e la disobbedienza civile. L’obiezione di coscienza al servizio militare è un chiaro esempio di non collaborazione con il sistema bellico, e in questo momento rappresenta una delle forme di opposizione alle guerre in corso.
Ci sono casi di obiezione di coscienza in Ucraina e in Russia, come in Israele. In Italia la leva obbligatoria è stata sospesa ma, poichè è possibile che sia reintrodotto il servizio militare obbligatorio, è importante rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza sancito dalla legge del 1972. C’è una campagna del Movimento Nonviolento che invita a dichiararsi obiettori alla guerra fin d’ora; vale per tutti, ma sarebbe significativa soprattutto per i giovani iscritti nelle liste di leva dei Comuni, per dare un segnale politico di non collaborazione in caso di mobilitazione bellica.
Un altro caso di non collaborazione è ad esempio, lo sciopero dei portuali di Genova contro le navi che trasportano armi, o la mobilitazione in Sardegna contro la produzione ed esportazione di bombe da parte della RWM Rheinmetall in Arabia Saudita, usate nella guerra in Yemen. Questa lotta ha dato origine anche a un’interessante produzione di beni warfree, per indicare strade alternative di lavoro e riconversione dal militare al civile.
Diverse possono essere le forme di disobbedienza civile, come quelle oggi praticate dai nuovi movimenti di Fridays for Future, Extinction Rebellion, Ultima generazione, che hanno portato il loro contributo al seminario, e che si possono concretamente sostenere anche aiutando gli attivisti colpiti da multe salate con donazioni solidali.
Un punto essenziale è prendere coscienza che una lotta è tanto più efficace quanto più riesce a far passare dalla parte dell’opposizione quell’ampia fascia di “indecisi” o “indifferenti” che sta in mezzo, tra chi sostiene il potere e chi lo contrasta. Tutte le lotte popolari hanno avuto un grande seguito quando sono riuscite a smuovere fasce ampie e diversificate di popolazione, spostandole verso le ragioni degli oppositori. La Valsusa insegna. Lo ha testimoniato fino all’ultimo anche il compianto Alberto Perino, che qui voglio ricordare con affetto e riconoscenza.
Questo comporta, perciò, una particolare attenzione alle modalità di lotta, che devono essere capaci di rendere evidenti le ragioni dell’opposizione e attrarre consenso e solidarietà dal basso. Non è un caso che il disegno di legge sicurezza in discussione al Senato sia stato soprannominato “anti-Gandhi”: è una dichiarazione di impotenza da parte di un potere autoritario, che, contro manifestazioni dichiaratamente nonviolente non riesce a far altro che reprimerle, venendo meno, in tal modo, al carattere costitutivamente conflittuale di una società democratica.
Come organizzare dunque efficaci, ampie e condivise forme di opposizione, capaci di imprimere una svolta, un cambio di direzione, in un contesto tragicamente connotato da molteplici crisi, da quella bellica a quella climatica, a quella delle stesse forme della democrazia rappresentativa? È un lavoro lungo e impegnativo, che richiede collaborazione e costruzione di reti di mutuo aiuto e sostegno dal basso, come nella miglire tradizione delle origini del movimento operaio. Tre sono i livelli sui quali impegnarsi, ciascuno secondo le proprie migliori attitudini e capacità, ma cercando di tenerli compresenti e in connessione tra loro:
1) un nuovo immaginario, una cultura profonda che sappia offrire una visione di futuro, contrastando il pensiero dominante bellicista e consumista, fondato sul pregiudizio della crescita illimitata, della inevitabilità delle diseguaglianze e del dominio del più forte; un pensiero che, con Alex Langer, invece del “più veloce”, “più alto”, “più forte”, valorizzi il “più lento”, “più profondo”, “più dolce”; che sappia spiegare con linguaggio accessibile a tutti su quali fondamenti di equità, sostenibilità e nonviolenza si costruisce la società che vogliamo. Controinformazione, decostruzione delle narrative dominanti, giornalismo di inchiesta sono strumenti efficaci a far emergere i dati di realtà contro le fake news e la propaganda. Un lavoro culturale ed educativo è dunque il primo tassello fondamentale per la costruzione di un’alternativa. Scuola, Università, istituti culturali, associazioni ne sono le sedi privilegiate;
2) lo sviluppo della consapevolezza che ciascuno può e deve usare il potere che è nelle proprie mani per scegliere con il voto, con la protesta, con le azioni di disobbedienza civile, di sciopero, di non collaborazione, la società nella quale vuole vivere. Tra gli strumenti di lotta a disposizione sottolineo qui l’importanza del boicottaggio, perché in una società di mercato si può fare politca efficacemente anche non comprando un prodotto insostenibile dal punto di vista ambientale o sociale, decidendo di togliere i propri soldi dalle “banche armate” (esiste un’apposita campagna), rifiutando a livello accademico partnership in progetti coinvolti nella ricerca militare…
Di fronte alla intollerabile connivenza o impotenza della comunità internazionale nei confronti della politica genocida del governo israeliano, ad esempio, si può accogliere l’invito del movimento BDS, promuovendo il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni verso tutte le aziende, le università, le istituzioni israeliane coinvolte nell’occupazione, nell’espulsione e nel massacro della popolazione palestinese, come hanno chiesto a gran voce movimenti studenteschi e istituzioni accademiche in tutto il mondo;
3) un “programma costruttivo” che renda visibile ciò per cui si lotta. Si potrebbe definire “praticare l’alternativa”, ovvero, costruire nel momento stesso in cui si lotta, pezzi di esperienza, pratiche di condivisione e di vita che prefigurano ciò verso cui si tende. Ci sono diversi esempi: quello degli operai di GKN, di cui ha dato testimonianza uno degli interventi in questo seminario, è uno di questi. Ma anche esperienze molto più alla portata di tutti, come i Gruppi di acquisto solidali (GAS), che sostengono piccoli produttori biologici e aziende eticamente sostenibili, sono un modo per affermare qui e ora un modello diverso di produzione, di distribuzione e di consumo.
Anche in una situazione tragica come quella del conflitto israelo palestinese, ad esempio, ci sono semi di convivenza, “pianticelle fragili” che testimoniano un diverso modi di concepire il rapporto con l’altro e di pensare al futuro di quella terra “predestinata dalla sua storia ad appartenere in comune a molti popoli e molte fedi” (1). Come fa l’associazione Combattenti per la pace (le cui due co-direttrici, Rana palestinese ed Eszter, israeliana, abbiamo ascoltato recentemente anche a Torino), nella quale palestinesi e israeliani lottano insieme contro l’occupazione, prefigurando una società in cui dal fiume al mare sia possibile convivere tutti con gli stessi diritti.
Non è certo facile, ma ciò che importa è non rassegnarsi all’impotenza. Tutti i cambiamenti sono iniziati da frange marginali della società, che poi, crescendo e facendo massa critica sono riuscite a imprimere una svolta e a realizzare profonde trasformazioni. Erica Chenoweth e Maria Stephan, nella loro fondamentale ricerca sull’efficacia delle lotte nonviolente nel corso dell’ultimo secolo (2) scrivono che se i movimenti riescono a mobilitare il 3,5% di cittadini su un determinato obiettivo è molto probabile che la loro lotta riesca a raggiungerlo. Una ragione in più per non scoraggiarsi e trovare forme di collaborazione e di mobilitazione comuni.
Note:
(1) Alex Langer, La pedagogia implicita, a cura di Lavinia Bianchi, Scholè, Brescia 2023
(2) E. Chenoweth, M. Stephan, Why Civil Resistance Works, Columbia University Press, 2011 e anche E. Chenoweth, Civil resistance: what everyone needs to know, Oxford University Press, 2021, traduzione italiana: Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio, con la resitenza civile, Sonda, Milano 2023
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