Una mai risolta Questione meridionale

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Il divario Nord-Sud resta profondo e potrebbe diventarlo ancora di più. Alcune misure previste nella legge di bilancio non sono strutturali. Il Ponte sullo Stretto rischia di drenare risorse da altre iniziative. Su tutto aleggia l’autonomia differenziata.

Le misure per il Sud nella legge di bilancio

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A luglio il governo ha ufficializzato l’approvazione del piano strategico della (nuova) Zes Unica che definisce gli interventi per lo sviluppo delle regioni del Mezzogiorno. Il piano conferma le tradizionali misure (benefici fiscali, detassazioni, crediti d’imposta, riduzione di dazi) finalizzate al sostegno degli investimenti nel Sud del paese.

Il comunicato stampa che annuncia l’operazione ha i consueti toni solenni. Peccato che tradurre le parole in fatti sia sempre complicato. Quindi, nonostante le risorse liberate dalla eliminazione di fondi non più compatibili con le regole europee, accade nella legge di bilancio che talune misure del Progetto Zes (ad esempio il credito di imposta) siano coperte per il solo 2025. E accade altresì che le risorse ricavate dai fondi dismessi, siano dirottate su un nuovo fondo da istituire e mettere a regime. Come annota su lavoce.info Ferdinando Ferrara, “con la legge di bilancio si rinuncia a dare continuità nel tempo a uno strumento già esistente, per introdurre una nuova misura che ha un identico scopo”, ma che non potrà essere immediatamente operativa.

Oltre cinquant’anni fa, il 13 settembre 1972, il Corriere della Sera titolava: “Il divario tra Nord e Sud verrà colmato solo nel 2020”. L’articolo riportava le dichiarazioni dell’economista Pasquale Saraceno, incaricato dal ministero del Bilancio dell’epoca di redigere un rapporto sul divario Nord-Sud.

Un divario mai colmato

A cinquant’anni di distanza, lungi dall’essere stato colmato, il divario si presenta più che mai granitico. I dati Istat 2020-2022 certificano che il Pil pro-capite in Sicilia, Campania e Calabria è la metà di quello di Lombardia, Emilia e Trentino. E una pubblicazione della Banca d’Italia del 2022 fornisce una fotografia dettagliata dell’aggravarsi di squilibri e disparità: “Rispetto al precedente progetto di ricerca (Luigi Cannari e Daniele Franco, 2010), le analisi qui sintetizzate mostrano un quadro per certi versi più preoccupante, in quanto i divari si sono allargati”.

A metà novembre, la consueta indagine annuale di Italia Oggi sulla qualità della vita nelle 107 province italiane, ha plasticamente confermato il quadro. La ricerca, strutturata in nove macrosettori e 92 indicatori, costringe a scendere fino al sessantaseiesimo posto per trovare in classifica la prima città del Sud (Matera). Si tratta di una situazione che nelle sue dinamiche di base, ancorché in un contesto profondamente diverso, ricorda ancora molto da vicino le conclusioni dei meridionalisti di fine Ottocento. Basta guardare alla geografia dei sussidi, o riflettere sulla recente esperienza del Reddito di cittadinanza, per convincersene.

Il Ponte serve davvero?

È notizia di questi giorni che all’entrata in opera del progetto “Ponte sullo Stretto” (13,5 miliardi di costi stimati, fino a oggi), manchi unicamente il parere del Comitato interministeriale competente. È ragionevole prevedere che il mega progetto, una volta esecutivo, dragherà risorse dai diversi fondi previsti a beneficio del Mezzogiorno, e qualcosa si è già visto proprio nel lavorio attorno alla legge di bilancio 2025. Ora, con un costo così ingente – oltre a rischio sismico, impatto ambientale e pericolo di infiltrazioni criminali – siamo davvero certi che il Ponte sullo Stretto costituisca la misura più idonea a fronteggiare e ridurre disparità e squilibri tra Nord e Sud del paese? Ha senso parlare di moderna opera green, laddove, una volta percorsa l’avveniristica viabilità del Ponte, ci si ritrova sulla Catania-Palermo a passo d’uomo? E davvero i siciliani hanno più bisogno del Ponte che di misure strutturali idonee a garantire loro una rete di distribuzione dell’acqua pubblica degna di questo nome?

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È forse tardi per riproporre queste domande. Ma non è tardi per riconnetterle al progetto di riforma sull’autonomia differenziata che la sentenza della Corte costituzionale ha ampiamente rimaneggiato. Anche quel progetto, a ben vedere, ci parla di squilibrio Nord-Sud. E ce ne parla – per chi ha senso critico – con un occhio preoccupato al trasferimento integrale, alle regioni, di competenze strategiche, e non già di singole funzioni, come opportunamente rilevato dalla Corte. Per non dire del principio costituzionale della parità di diritti tra i cittadini rispetto alla vexata quaestio dei Lep (livelli essenziali di prestazioni). Sul tema, rimando a una lettura sulla rivista Il Mulino (settembre 2024) ad opera di Filippo Sbrana, il quale lega alla riforma del 1970 e al trasferimento di molte competenze alle neoistituite regioni, l’insuccesso e la stagione più nera dell’esperienza ultratrentennale della Cassa del Mezzogiorno.

Che le preoccupazioni sulla “secessione dei ricchi”, come si è intesa definirla, siano ampie e trasversali – tanto più all’esito del pronunciamento della Corte – lo testimoniano, oltre ad alcune posizioni più defilate nella stessa compagine di governo, gli esiti di un recente sondaggio Demos-Repubblica che danno conto di una sempre più diffusa contrarietà al progetto da parte dei cittadini (sei su dieci).

Legge di bilancio, Ponte sullo Stretto, autonomia differenziata: nei prossimi mesi su questi temi, e sulle scelte che ne discenderanno, si giocherà una partita strategica per le sorti del Mezzogiorno. Il fatto che lo Svimez, in previsione delle audizioni sulla legge di bilancio, abbia ritenuto di far conoscere al Parlamento la propria preoccupazione per la prevista riduzione delle risorse per il Sud, quantificate “in circa 5,3 miliardi di euro tra il 2025 e il 2027”, sembra più che un segnale d’allarme.

La sensazione è che la questione meridionale, drammaticamente cristallizzata nelle sue tendenze di fondo e nei suoi numeri fondamentali, sia priva di soluzioni strutturali alle viste. Così persistendo le cose, il Sud d’Italia continuerà ad essere – per dirla con Guido Dorso – né più né meno che una “conquista regia”.

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Fernando Bruno

Giornalista e scrittore, storico di formazione, si occupa di diritto, sociologia ed economia dei media, ambiti in cui ha lavorato negli ultimi tre decenni per tutte le maggiori istituzioni nazionali. Tra gli altri incarichi è stato direttore della segreteria tecnica del ministro delle comunicazioni (2006-2008), componente del Consiglio superiore delle comunicazioni (2007-2010), membro della Commissione Stato-Rai e del Comitato per la radio digitale, consigliere del presidente Agcom (2014-2019). Attualmente lavora all’Ufficio studi Agcom. Ha pubblicato per Il Mulino, Bollati Boringhieri, Giuffrè e scritto decine di saggi e articoli per le principali riviste del settore ICT e media.

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