Maurizio Mannoni: «Berlinguer, un carisma unico: nessuno dei successori come lui»

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Sassari Domani all’auditorium provinciale di Sassari andrà in scena il secondo evento dedicato alla figura di Enrico Berlinguer a 40 anni dalla morte. L’appuntamento con “La lezione della storia”, promosso dalla Regione con il gruppo Sae, la Nuova Sardegna e Sardinia post come media partner, è per le 17. Una serie di incontri che avranno per protagonisti Lucia Annunziata, Beppe Pisanu, Massimo D’Alema e Alessandra Todde. La serata si aprirà con una tavola rotonda, moderata da Luciano Tancredi, sull’informazione. Insieme alla giornalista Giovanna Botteri e a Barbara Floridia, presidente della commissione Vigilanza Rai, ci sarà anche Maurizio Mannoni, storico volto del Tg3 e fino allo scorso anno al timone di Linea notte.

Mannoni, che ricordo ha di Berlinguer? Ai tempi come era percepito da voi giovani?

«Era una figura quasi misteriosa. Allora – parlo di comunicazione che è la questione che più conosco – la figura del segretario era avvolta da un alone di mistero. Lo vedevi una, due volte all’anno. Già l’uomo di per sé aveva un fascino particolare, il fatto di vederlo e sentirlo pochissimo lo faceva aumentare. Ma questi erano i segretari del Pci di una volta. Poi le cose sono cambiate e oggi abbiamo i politici che parlano anche dieci volte al giorno».

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Il compromesso storico non fu indolore.

«La gran parte dei militanti comunisti lo vedeva con sospetto. Anche se una volta che quello che il partito decideva era un dogma, si faceva fatica ad accettare di allearsi con la Dc. Giusto ad Aldo Moro si riconosceva una credibilità maggiore. Ricordo le discussioni in queste sedi austere del Pci. Sembra di parlare di un mondo lontanissimo. Eppure era così: a decidere erano i leader, ma ogni militante aveva l’opportunità di dire la sua».

Ha conosciuto Berlinguer?

«Ai tempi lavoravo in una tv privata del Pci, Video Uno. Eravamo agli albori delle tv private. Stavamo a Roma, eravamo molto attivi, ma nelle occasioni pubbliche venivamo tenuti a distanza, c’era il servizio d’ordine di Tonino Tatò. Mica come oggi potevi mettere il microfono sotto il muso del segretario. Berlinguer venne in sede qualche volta, in occasioni di vittorie come al referendum sull’aborto. Senza dimenticare che fummo noi con una piccola troupe a fare le storiche immagini di Roberto Benigni che lo prende in braccio a quella manifestazione al Pincio».

Lei entrerà in Rai nel 1987. Berlinguer non c’è più, ma il Tg3 è in quota Pci. La mitica Telekabul di Sandro Curzi.

«Era il periodo della lottizzazione più rigida. Con la tripartizione era una regola ineludibile. Nonostante ciò, è stato il periodo più fecondo per la Rai. Tra le reti era una sfida sulla qualità. Ricordo con nostalgia quel periodo. Poi è stato un continuo calare». È in pensione dalla Rai da un anno e mezzo. Come la vede da osservatore? «Intanto, la guardo poco, e lo dico con amarezza. La guardo poco io e la guardano poco gli italiani, perché c’è poco da vedere. Per chi ci ha lavorato per tanti anni è un enorme dispiacere. Avrei voluto che anche la Rai di destra mettesse qualcosa di nuovo in campo. Invece, non si vede niente, se non radere al suolo tutto ciò che si considerava nemico».

La Rai però è al centro del suo romanzo, “Quella notte a Saxa Rubra”, che presenterà venerdì a Sassari.

«È una storia ricca di fantasia in cui la Rai è molto presente. Io sono l’io narrante, ma attorno a questa storia ci sono tanti colleghi che hanno fatto parte della mia vita professionale, dei miei anni più belli».

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Ritornando a Berlinguer, perché 40 anni dopo la sinistra si sente ancora orfana?

«Perché leader alla sua altezza non ce ne sono più stati. Mi perdonino i segretari che si sono succeduti, ma sono sempre stati figure meno carismatiche. Ai tempi il segretario non veniva messo in discussione. I successivi sono durati il tempo di un mattino e i militanti hanno anche fatto fatica ad affezionarsi. Per questo motivo quelli della mia generazione, voltandosi indietro, nonostante tutte le contraddizioni, i ritardi del Pci di allora, vedevano nel partito una casa in cui si sentivano protetti. Era motivo di orgoglio. Questo fatto, per chi lo ha vissuto, determina nostalgia. Ma anche a chi oggi lo studia con grande curiosità fa venire la voglia di avere un leader da amare».



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