Le terre d’acqua e la coltura del riso in trasformazione. Da zone da bonificare a zone da valorizzare per la loro biodiversità che le rende forti, resistenti e adattabili ai tempi della crisi climatica. Questo è reso possibile grazie all’interazione tra tradizione, innovazione e valutazione ecologica a tutto tondo: la coltura del riso e la rigenerazione del terreno perché non sia una mono coltura, la valorizzazione della risorsa acqua, l’importanza del paesaggio nella gestione del territorio e l’interazione tra economie diverse: aziende agricole, proposte didattiche, turismo dolce. Facendo attenzione a non distruggere ulteriormente l’ambiente naturale e impostando le azioni sulla rigenerazione (anche culturale) e sulla valutazione degli effetti delle singole azioni nell’insieme.
La gestione, insomma, delle terre d’acqua con le sue implicazioni storiche, giuridiche, antropologiche, economiche, biologiche e socio culturali. Questo l’obiettivo del seminario di formazione tenutosi il 27 e 28 novembre alla Certosa 1515 di Avigliana, organizzato dall’Università del Piemonte Orientale – Dipartimento per lo Sviluppo Sostenibile e la Transizione Ecologica all’interno del progetto INNOVARISI e che ha visto coinvolte anche l’Università di Palermo e l’Agenzia Laore Sardegna, in collaborazione con Casacomune, Scuola e Azioni del Gruppo Abele. Il progetto è stato finanziato dall’Unione Europea, all’interno del PNRR e vede coinvolto il Ministero dell’Università e della Ricerca e Agritech ha l’ambizione – ha spiegato Luisella Roberta Celi, “di definire nuovi modelli di agricoltura che tengano conto delle diverse dimensioni e di come le stesse possono supportarsi a vicenda, nel necessario equilibrio socio economico ambientale”. Non poco quindi. E il risultato raggiunto è stata la consapevolezza che la chiave di un futuro possibile, per tutti, sta nella diversificazione e nel confronto continuo tra discipline diverse per creare innovazione a partire dalla tradizione, impattando il meno possibile. Molte, naturalmente, le questioni poste e le domande che rimangono aperte. Vediamole.
Docenti, ricercatori e studenti assieme ad aziende del settore hanno analizzato, con un metodo interdisciplinare non solo teorico ma intrecciato con esperienze concrete di ieri e di oggi, tutte consultabili attraverso “I granai della memoria”, una iniziativa attivata dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo in collaborazione con Slow Food e altri atenei italiani tra i quali l’Università del Piemonte Orientale e che oggi raccoglie – sotto la direzione scientifica di Carlo Petrini, Piercarlo Grimaldi e Davide Porporato – oltre 1600 storie di vita (www.granaidellamemoria.it).
Agronomi, sociologi, storici, genetisti, zoologi, biologi, antropologi, chimici, economisti, giuristi. E i loro studenti. Il tema di fondo la coltivazione del riso, dalla storia che ha visto questo tipo di coltura intrecciata, da sempre, con una oculata gestione dell’acqua, “senza sprecarne neanche un litro e definendo chi ha diritto ad utilizzarla: risorsa pubblica o privata, bene comune – ha spiegato il professor Francesco Aimerito, storico del diritto medievale e moderno – In questo settore il Piemonte ha avuto un ruolo guida per la disciplina delle acque con il Canale Cavour (riferimento per tutti coi sui circa 83 chilometri) e con il sapere degli acquaioli”. “Figure fondamentali nella comunità dove si coltiva il riso perché sanno portare a spasso l’acqua, ne conoscono l’odore, il rumore, l’umore. – Ha spiegato Davide Porporato, etnologo – Sono figure istituzionali che monitorano lo stato dei canali, si interfacciano con gli agricoltori, ascoltandoli e mediando eventuali conflitti, decidono la giusta quantità d’acqua e i tempi di irrigazione dei terreni tenendo conto di tutti i fattori connessi, morfologici, meteorologici, delle colture e delle esigenze di fauna e flora. Figura, quella dell’acquaiolo – il navilante è il suo referente superiore considerato alla stregua del sindaco e del parroco”. Lo ricorda anche Gianpaolo Fassino, antropologo, quando percorre le “piste di riso” fatte di legno e granito. Ma non ci sono solo bei ricordi: “questa coltura – ha messo in evidenza Aimerito – è stata molto osteggiata in passato per la sua insalubrità in quanto i territori a essa destinati venivano definiti “terre di malaria e di febbri”, terre di isolamento e abbandono per la distanza di chi vi lavorava e viveva dai luoghi maggiormente abitati. Le terre coltivate erano terre feudali, ecclesiastiche e dello Stato (il Re). La resa del prodotto, ieri come oggi, molto redditizia”.
La manodopera costava poco ed era svolta soprattutto da donne: le mondine. Quelle mondine che hanno fatto introdurre, per tutti i lavoratori, con le loro proteste, frammiste a canti con le gambe a mollo per l’intera giornata alla mercé di zanzare sanguisughe, il diritto/limite alle otto ore lavorative giornaliere. Tutt’altra situazione oggi, con la meccanizzazione e la valorizzazione di elementi come il paesaggio, la gastronomia, le fattorie didattiche e altri fattori legati al turismo dolce che hanno contribuito a far diventare le terre d’acqua – molte delle quali oggi stanno sperimentano il biologico e la rotazione con semina di leguminose intervallate al riso – esempi di economie vincenti e in equilibrio tra elementi multifattoriali.
L’avvento della tecnica e della ricerca, fondamentali, “non possono però sostituire – ha detto Annalisa D’Orsi, antropologa culturale – la sensibilità, la competenza, la conoscenza fatta di pratica e di saperi costruiti in secoli di storia. Non tutto si può meccanizzare. L’approccio deve essere olistico, si deve conoscere a fondo il prodotto e i territori e tenere assieme il tutto. Un singolo intervento – come può essere ammazzare un insetto che produce danni – va valutato a fondo, considerando i danni collaterali che l’intervento comporta a tutto l’ambiente circostante. Le nuove forme di colture, biologico e biodinamico, tengono conto di tutto questo”.
All’interno dei Granai della Memoria, “Storie di riso” è un archivio specifico dedicato alle testimonianze di risicoltori che stanno sperimentando innovazione, tradizione e integrazione di risorse. Alcune di queste sono state rilanciate nell’incontro. Tra queste Francesco Bergamasco, laurea in ingegneria, che coltiva riso in Lomellina, riscoprendo saperi e dedicando la metà a biologico o Michele Aina, che afferma “ci vuole più umiltà, meno approccio antropocentrico, dobbiamo ascoltare quello che ci offre la natura, l’ambiente, abbiamo molto da imparare”. Ed è l’approccio adottato da Cristina Brizzolari, una risicoltrice economista che viveva a Roma e ha deciso di restaurare una cascina di famiglia a Casalbeltrame e di gestire i terreni coltivati a riso fino ad suo ritorno dati in affitto. Lei ha scelto di produrre riso “buono”, sostenibile.
“Dobbiamo viverci, deve essere economicamente redditizio, tanto che abbiamo creato anche una fattoria didattica e pensiamo che vadano integrate più attività, ma l’approccio nei confronti della natura, di cui facciamo parte, non deve essere predatorio, non dobbiamo depauperare suolo, acqua, altro”. Una storia simile la racconta Alice Cerutti che gestisce Cascina Oschiena, nel vercellese. Ha imparato a coltivare riso col marito e poi si è aperta a molto altro: stimolati da un ornitologo che ha fatto notare loro come sul loro territorio nidificasse una specie rara di uccello, la Pittima Reale, hanno deciso di destinare parte delle loro terre a un’oasi naturalistica con l’obiettivo primario di aumentare la biodiversità e imparare dalla natura. E poi tante altre esperienze che vale la pena conoscere, come Mattia Eusebio Pastore che non vuole contrapporre umani e natura, ma interconnettere produzione e consumo, fuori dalle logiche speculative, standardizzanti per una qualità della vita più gratificante dove colture e cultura remano nella stessa direzione. E poi Maurizio Tabacchi che, col cugino, ha recuperato una varietà storica di riso: il Gigante di Vercelli che ha la particolarità di essere resistente al brusone, un patogeno del riso che richiedere numerosi trattamenti. Paolo Mosca descrive il lavoro di agricoltore gratificante e afferma che il mantra troppo spesso ripetuto, secondo cui le aziende agricole dovrebbero essere sempre più grandi e competitive è insostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Sono solo alcuni esempi delle molteplici esperienze presentate e che lavorano sul campo e con l’Università del Piemonte Orientale.
Inevitabile, confrontandosi con loro, parlare di redditività e di diversificazione del reddito, di agricoltura integrata e comunque sostenibile dando valore e approfondimento continuo, fatto di verifiche dei risulti raggiunti e degli elementi problematici che emergono. Tra questi la coltivazione di riso con minor acqua per far fronte ai sempre maggior i periodi di siccità che, se non fatto con adeguate attenzioni, rischia di diventare – come ha fatto notare Andrea Valisena, biologo fluviale, una vera e propria “trappola ecologica”: specie arboree e animali che non hanno più il loro luogo di vita e sostentamento, ma se fatto con le dovute cautele e studio del terreno/dei terreni da sommergere o no diventa una grande opportunità anche per specie che nidificano sul terreni umidi e che la sommersione potrebbero danneggiare.
“L’ecosistema è un qualcosa in totale equilibrio e tutto ciò che facciamo non fa che comprometterne il funzionamento. Il compito del chimico è di analizzare campioni di acqua e di terreno per determinare ciò che altera, e in che misura, questo equilibrio” a spiegarlo Valentina Gianotti, chimica, che ha parlato di arsenico (presente in natura), di cadmio ma anche di fosfati, concimi, sostante che inibiscono e che, da alcune combinazioni, scatenano reazioni a catena. Gianotti ha spiegato come e perché il ciclo della vita avviene in primavera, grazie a un insieme di fattori che si combinano tra di loro, “con un tempo proprio, e con una capacità di reagine a piccoli e fondamentali cambiamenti”. Un intervento che poteva essere molto tecnico (formule) ma che, inserito nella sequenza delle angolature di osservazione proposte, si è rilevato affascinante: “la natura senza di noi è perfetta. Stiamo arrivando, per quello che stiamo facendo e per la velocità con cui lo facciamo, all’irreversibilità. Se non impariamo a impattare il meno possibile”.
Dopo la chimica la genetista vegetale Erica Mica ha proposto, di fronte di un grande aumento di produzione a cui il mercato non intende rinunciare e all’aumento di problematiche (nuovi patogeni, siccità, alluvioni, aumento della temperatura) la biodiversità come risorsa per rafforzare il patrimonio naturale. “La monocoltura distrugge colture e patrimonio culturale”. Sperimentare quindi senza impoverire o semplificare: Il riso è una pianta delicata, teme gli sbalzi di temperatura e ha l’acqua come alleata, che funge da coperta termica e protettrice per gli infestanti
Un grande beneficio dell’agricoltura di riso integrata e maggiormente sostenibile (l’ottimo sarebbe il biologico che stanno sperimentando alcune aziende) l’ha avuto certamente la biodiversità animale: in alcuni territori l’uso smodato di diserbanti e fertilizzanti aveva fatto quasi scomparire numerose specie di anfibi, di uccelli e altre specie. Irene Pellegrino, zoologa, ha posto l’attenzione, oltre agli animali più conosciuti e noti anche su quelli piccoli e meno noti: batteri, insetti, invertebrati, fondamentali per un equilibrio adeguato a produrre un prodotto sano. Sono quelli che vengono definiti “bio indicatori” su cui ha approfondito anche Andrea Valisena che ha parlato di habitat per libellule, anfibi e tanti altri animali che attirano sempre più l’attenzione di molti appassionati.
Dopo gli aspetti naturali quelli economici: il riso coltivato per la sua grande redditività e adattabilità a terreni dove altre colture non avrebbero resistito (radicato). Il riso che, con l’avvento della meccanizzazione ha potuto togliere aspetti negativi come l’insalubrità della lavorazione aumentando il benessere delle comunità locali e la sua commercializzazione. Il riso oggi un emblema del Made in Italy, Cinzia Maini e Eliana Baici hanno posto attenzione su aspetti normativi ma anche valoriali: la disponibilità di capitale umano (competenze) non si crea dall’oggi al domani. L’approccio antropologico di Gabriella D’Agostino ha posto l’attenzione sul saper dialogare con chi ha competenze e con il territorio. Giamaica Mannara assegnista di ricerca ha parlato della risicoltura in Sicilia che si contraddistingue dalla scelta del biologico, partendo dalla storia con il ruolo dei fiumi e dalla volontà di cucinare cibo con materie prime prodotte nell’isola. La storia ai tempi del Duce, la malaria e le bonifiche nonché la scarsità di acqua hanno portato a produrre riso non per sommersione ma per scorrimento, ottimizzando nel tempo l’intera filiera chiusa con la lavorazione in loco. Il consumo? In tanti piatti, a cominciare dalle arancine per usare il termine corretto: solo a Catania si chiamano arancini, termine che poi si è propagato nell’intera penisola ma, arancine o arancini, di riso in ogni caso sono!
Multi economie e multi professioni. Contadini, ristoratori, ingegneri e chimici, ma anche pastori invitati in periodi definiti dell’anno a pascolare su terreni da rigenerare riducendo l’uso di fertilizzanti chimici. Non a caso Casacomune ha promosso l’evento all’interno del nuovo filone che l’associazione – promossa dal Gruppo Abele e su sollecitazioni di Libera – dedica alle Professioni verdi: posti di lavoro legati all’ambiente, alla sua cura e alla sua tutela: professioni di senso, tante, variegate, in continua crescita e che possono “far stare” e “far ritornare” molti giovani nei territori in cui sono nati.
Un altro elemento su cui lavorare è il racconto delle “storie di riso” oggi definito storytelling, per modificare gli usi e i consumi di riso nel nostro Paese, per informare delle varietà a disposizione, dei benefici sulla salute e delle mediazioni con alcune patologie. Tanti spazi aperti…
Nel confronto non sono mancate le difficoltà evidenziate dalle aziende a cominciare dai problemi nell’accesso alla terra e al credito. La concorrenza di India e Cina. Ma anche il rischio, evidenziato da Casacomune, a livello planetario, di finanziarizzazione della Natura: “I beni comuni hanno un grande valore. Il rischio di dare un prezzo a tutto è che si pensi che tutto si possa comprare e tutto si possa vendere ma non può essere così: ci sono cose, come la Natura, che ha un valore enorme, inestimabile. Un tema, questo, su cui bisogna vigilare. In termini di opportunità Casacomune ha portato all’incontro la recente legge sulla Nature Restoration Law (Legge sul ripristino della Natura), approvata il 17 giugno 2024: recuperare zone compromesse, inquinate. Ripristinare, riqualificare, rigenerare. Una grande opportunità di vita migliore e di lavoro.
Da ultimo, non per ordine di importanza, il ruolo delle leggi e delle istituzioni, pubbliche e private. E anche su questo esempi positivi e propositivi non sono mancati. Roberta Lombardi, responsabile scientifico di Innovarisi e direttrice del Dipartimento per lo Sviluppo Sostenibile e la Transizione Ecologia dell’Università del Piemonte Orientale ha portato l’esempio del Consorzio (etimologicamente dividere la sorte) Ovest Sesia, che l’anno scorso ha compiuto 170 anni (istituito nel 1853, primo presidente Cavour) un esempio di gestione partecipata, trasparente, con un proprio parlamento e un proprio arbitrato per discutere eventuali contenziosi. Territori del biellese, vercellese e parte del casalese gestiti per fornire acqua a 9000 aziende, con 9000 chilometri di canali, 150 tra tecnici e acquaioli per la difesa idraulica del suolo e la produzione di energia elettrica con acqua prelevata dalla Dora Baltea, dal Sesia e dal Po.
Cosa rendere possibile questo modo di amministrare le terre d’acqua (il consorzio Est Sesia è il più grande d’Europa)? Certamente il Canale Cavour, un’opera costruita in appena quattro anni (tra il 1863 e il 1866) ma che unitamente all’opera ha previsto anche la sua gestione impostata su parità, partecipazione, trasparenza, flessibilità. Un metodo che continua a dare ottimi frutti. Un esempio di amministrazione condivisa da cui – in molti ambiti, non solo per la gestione del riso – si dovrebbe, potrebbe ri-partire perché (esempi extra riso sono le Regole per la gestione dei boschi e le Comunaglie) “i risultati emersi sono stati – sempre Roberta Lombardi – maggiore efficacia e legittimazione, rafforzamento del senso di comunità, innovazione, migliore conoscenza dei bisogni e sviluppo del capitale sociale.
Non poco. È evidente. Riso e dintorni quindi: terre d’acqua e tanto altro, spunti per tutti.
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