Non c’è città senza io

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Macron, il ragazzo intelligente, ha sbagliato a indire elezioni anticipate a giugno. Dopo la vittoria alle europee di Le Pen, il Presidente francese ha voluto recuperare lo spazio perduto con un colpo di genio. Ma l’operazione non è riuscita. Solo nel secondo turno delle elezioni legislative di luglio è stato possibile impedire la vittoria del Rassemblement national. Il risultato non rende possibile in ogni caso la formazione di una maggioranza stabile. Era solo questione di tempo prima che il Governo di Michael Barnier cadesse in un’Assemblea dominata dagli estremismi di destra e di sinistra. Quest’ultima crisi politica ha radici profonde.



Macron vince le elezioni presidenziali del 2017, in un momento in cui sinistra e destra tradizionali sono praticamente scomparse. Macron è un giovane dell’élite burocratica francese convinto di essere l’unto del destino per inaugurare un nuovo mondo. Ma due anni dopo essere stato eletto, perde il favore popolare. Macron, distante, tecnocratico, poco portato al dialogo, non è riuscito a far capire ai francesi che sono necessarie molte riforme. Quasi il 70% ha una cattiva opinione di lui.

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Macron è un Presidente senza popolo, in un momento in cui la parola popolo torna a essere molto usata in Europa. È un tragedia che i politici non abbiano un popolo, ma è ancora più tragico che la città sia disabitata.

La parola città è usata molto, ma non in senso positivo. Si usa per nominare una realtà rimasta senza popolazione, senza abitanti. Il problema non è la crisi della natalità, quella è una conseguenza. La parola città è vuota perché è usata come sinonimo di rifugio nostalgico contro il malessere, come luogo difensivo dove si vive del ricordo dei bei tempi. La città ha smesso di essere una cosa viva ed è diventata un progetto al quale si deve lealtà al di sopra di ogni considerazione critica e ragionevole.



Gli ideali dell’Illuminismo hanno fallito e può sembrare che ora sia tempo, come nel XIX secolo, di ritornare all’ideale romantico della “nazione eterna”. Non c’è nulla di eterno senza presente. E nella città non c’è presente se i legami tra le persone sono finalizzati solo a soddisfare un nervoso bisogno di riconoscimento. La città si spopola perché ciò che unisce è la reazione, non la ragione: le proteste dei gilet gialli, dei contadini arrabbiati, dei pensionati che aspirano a mantenere il loro tenore di vita a tutti i costi, dei progressisti che intendono conquistare nuovi diritti, dei conservatori che vogliono che i diritti della natura umana siano tutelati…

Una città occupata dalle masse è vuota. Una persona, con un io minimo, è vuota. Questo è ciò che persegue il potere, il potere del capitalismo del XXI secolo, delle imprese, dei gruppi (anche religiosi): svuotare. Un io minimo registra solo sensazioni ed emozioni disaggregate, il suo unico scopo è preservarsi e sopravvivere. Questa è la regola suprema: la sopravvivenza dell’individuo e del gruppo. Questo io minimo non è capace di raccontare a se stesso e agli altri quegli avvenimenti particolari che lo interrogano, lo mettono in crisi o danno senso alla sua vita. Non riesce a trovare il nesso tra ciò che accade e il significato.

Quando la città disabitata si riunisce si dedica agli sport estremi e ai giochi da tavolo. E, soprattutto, si dedica a parlare di sé (a criticare gli amici quasi conservatori o quasi progressisti) e a sfogare la propria frustrazione lamentandosi dei politici che rubano, della globalizzazione o dei gatti neri che camminano sui tetti di notte. Nella città disabitata si somministrano overdose di parole che seccano il cuore e colonizzano la mente. Non c’è città senza io. L’io è la coscienza di sé e la capacità di fare esperienza di ciò che si vive. E quesa coscienza dell’identità personale è ciò che dà unità all’esistenza e che consente l’unità con gli altri.

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