Le immagini che arrivano da Sednaya scuotono le coscienze e ci mettono di fronte all’ipocrisia dell’attivismo occidentale. La prigione, situata vicino a Damasco, è tristemente famosa per essere stato uno dei luoghi più oscuri del regime siriano, un simbolo delle violazioni dei diritti umani commesse durante la guerra civile. Spesso definita come una “fabbrica della morte” o “mattatoio umano”, Sednaya è stata teatro di torture, esecuzioni sommarie e pratiche di detenzione disumane.
La prigione era sotto il controllo diretto del regime di Bashar al-Assad e veniva gestita principalmente dalla polizia militare per detenere gli oppositori politici, gli attivisti, i giornalisti e i militari sospettati di tradimento, ma anche semplici civili arrestati arbitrariamente dal regime. Prima della fase finale della ribellione, che ha visto la caduta di Assad, era molto difficile ottenere informazioni sulla prigione a causa della totale segretezza e del divieto di accesso a osservatori internazionali. Tuttavia, sono molte le testimonianze di ex detenuti, riusciti a fuggire, raccolte in diversi rapporti delle organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. Da questi rapporti apprendiamo l’uso sistematico della tortura, dai pestaggi all’elettroshock passando per la privazione del sonno, e delle punizioni collettive come strumento di punizione e intimidazione. Secondo Amnesty International decine di migliaia di persone, inclusi donne e bambini, sono state giustiziate sommariamente negli anni tramite impiccagioni di massa cui spesso faceva seguito la profanazione dei corpi delle vittime. In generale i prigionieri venivano detenuti in celle sovraffollate, con accesso limitato o inesistente a cibo, acqua e cure mediche. Le condizioni igieniche erano precarie e contribuivano alla diffusione di malattie virali e batteriche.
Ma Sednaya è solo la punta dell’iceberg di un regime che negli anni ha ucciso più di 600.000 persone e provocato più di 12 milioni di profughi in una sanguinosa guerra civile che è stata quasi completamente ignorata dal mondo dell’attivismo di massa occidentale. La questione dell’indifferenza internazionale rispetto ai massacri commessi dal regime di Bashar al-Assad in Siria è comunque complessa e coinvolge diversi fattori politici, economici, culturali e mediatici.
In primo luogo le complicazioni geopolitiche: Russia e Iran hanno sostenuto il regime di Assad, fornendo aiuti militari, economici e politici, il che ha complicato qualsiasi intervento internazionale, dato che un’azione contro Assad avrebbe potuto scatenare un conflitto più ampio. Durante il conflitto siriano poi, l’ascesa dello Stato Islamico (Isis) ha spostato l’attenzione internazionale dal regime di Assad al rischio jihadista oscurando le responsabilità del regime a fronte dell’interesse a mantenere lo status quo il più possibile. Anche per questo Assad ha cercato di etichettare tutta l’opposizione come terrorista, guadagnando indirettamente il favore di alcuni leader occidentali che temevano il caos o la radicalizzazione della Siria post-Assad.
Il regime di Assad ha attivamente lavorato per minimizzare le proprie atrocità, mentre i suoi alleati internazionali hanno diffuso disinformazione per confondere le narrazioni sul conflitto. Stati Uniti ed Europa si sono dunque trovati divisi sul da farsi e comunque poco inclini a intervenire in modo deciso, anche per evitare di ripetere gli errori dell’intervento in Iraq o in Libia. Per molti paesi occidentali, la Siria non rappresenta un’importante priorità strategica, dato che non possiede grandi risorse energetiche o un peso geopolitico cruciale, come nel caso di altri paesi del Medio Oriente.
Esiste poi un problema di attenzione selettiva laddove i conflitti in Medio Oriente spesso vengono percepiti come distanti e difficili da comprendere dal pubblico occidentale, il che porta a una copertura mediatica intermittente. A questo si aggiunge il fatto che negli ultimi anni si sono affacciate altre emergenze globali (migrazioni, pandemia, crisi economiche) che hanno attirato l’attenzione del pubblico e dei governi occidentali. Dopo anni di guerra e atrocità in Siria, molte persone nel mondo si sono abituate alle notizie di violenze, creando una sorta di desensibilizzazione collettiva mentre l’ondata di rifugiati siriani ha spesso portato a reazioni nazionalistiche o xenofobe che in molti paesi hanno spostato il dibattito dalle cause (il regime di Assad) agli effetti (migrazioni).
In sintesi, la combinazione di fattori geopolitici, dinamiche mediatiche e una certa stanchezza collettiva ha contribuito all’inadeguata risposta internazionale ai massacri in Siria, lasciando i siriani vittime di una tragedia umanitaria che avrebbe richiesto un’attenzione molto maggiore. In poche parole nessuna piazza per la Siria, nessun collettivo universitario contro il genocidio del popolo siriano e nessuna richiesta di arresto internazionale. Una reazione molto differente rispetto alle migliaia di manifestazione in sostegno della Palestina e, diciamocelo, contro gli ebrei. Ma anche in questo caso esistono delle ragioni profonde che spiegano la disparità di trattamento e l’ipocrisia occidentale. Senza tirare in ballo l’antisemitismo, che è comunque uno dei fattori principali, la differenza nella reazione pubblica e nelle manifestazioni di solidarietà verso la Siria rispetto alla Palestina può essere attribuita a diversi fattori storici, culturali, geopolitici e mediatici.
Partiamo dal radicamento storico e simbolico del conflitto palestinese. Si tratta di un conflitto di lunga data. La questione palestinese è al centro dell’attenzione globale da decenni, rappresentando una delle cause principali del dibattito politico e morale in Medio Oriente. Essa è stata cristallizzata nel tempo come il culmine della lotta contro il colonialismo, l’occupazione e l’apartheid, temi che hanno risuonato con molti movimenti progressisti e anticoloniali nel mondo. La causa palestinese è dunque spesso percepita come una battaglia universale per i diritti umani, la giustizia e l’autodeterminazione dei popoli, il che ha portato a un’ampia solidarietà trasversale. La guerra in Siria è invece vista semplicemente come una guerra civile, complicata, con molteplici attori coinvolti a partire dal regime di Assad, i gruppi di opposizione (di varia ideologia), i gruppi jihadisti, e diverse potenze esterne come Russia, Iran, Turchia e Stati Uniti. Questa complessità ha reso impossibile per molte persone identificare chiaramente la “parte giusta” da sostenere.
È pur vero che la guerra siriana è stata coperta dai media globali, ma la narrazione si è spesso concentrata su eventi specifici, come l’uso di armi chimiche o l’assedio di Aleppo, senza un’attenzione continuativa e strutturata e con scarso seguito di pubblico. Al contrario, il conflitto israelo-palestinese è un tema costante nei notiziari e nelle discussioni pubbliche perché molto remunerativo in termini di indici di ascolto.
Esiste poi il tema della identificazione culturale e religiosa. La causa palestinese ha costruito negli anni un forte legame con la comunità musulmana globale, mobilitando molte persone in tutto il mondo, sia musulmane che appartenenti ad altre fedi, in segno di solidarietà ma soprattutto per non cadere nell’accusa di islamofobia. Il conflitto siriano, invece, non ha mai avuto un simbolo o una narrativa unificante e anche all’interno del mondo arabo, la questione siriana è stata polarizzante per via delle divisioni settarie (tra sunniti, sciiti e altre comunità) e politiche. A questo si aggiunge il fatto che la Palestina gode di un’ampia rete di movimenti e attivisti ben organizzati in tutto il mondo, come il movimento Bds (Boycott, Divestment, Sanctions), che mantiene viva l’attenzione internazionale mentre la Siria non ha mai avuto una rete di attivisti transnazionali altrettanto solida.
Infine il tema dei rifugiati. I siriani in fuga dalla guerra sono stati accolti e integrati, seppur con difficoltà, in molti paesi, e le loro voci si sono spesso concentrate sulla sopravvivenza piuttosto che sulla mobilitazione politica. Nel caso della Palestina, anche per colpa della mancata solidarietà araba e dell’interesse dell’Onu a cristallizzare l’esperienza palestinese come un unicum storico, i rifugiati e le loro diaspore non si sono mai integrate nei paesi ospitanti. In sintesi, la causa palestinese ha beneficiato di decenni di attenzione e di una narrazione unificante più semplice da comunicare e più remunerativa politicamente, mentre la complessità del conflitto siriano, la frammentazione delle voci e l’assenza di una narrazione universale hanno limitato le manifestazioni pubbliche di solidarietà e causato l’ipocrisia che possiamo vedere oggi chiaramente.
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