COSENZA Un esame lunghissimo, nel corso del processo da “Reset“, dopo la decisione di pentirsi e collaborare con la giustizia. Ivan Barone fa il suo ingresso (in collegamento video) in aula bunker a Castrovillari, sede che ospita il procedimento ordinario celebrato dinanzi al Tribunale di Cosenza. Il pm della Dda di Catanzaro Corrado Cubellotti sollecita i ricordi del collaboratore di giustizia, in passato uomo di fiducia del clan degli Zingari impegnato a compiere diverse azioni «esecutive del programma associativo ed in particolare funzionali al traffico di sostanze stupefacenti». Ma anche in una serie di condotte legate alla richiesta della tassa non dovuta ad alcuni commercianti. «Avevo il compito di riscuotere le estorsioni e distribuire i soldi ai familiari dei detenuti». Secondo il racconto fornito, Barone avrebbe partecipato a summit di ‘ndrangheta.
Come funziona il traffico di droga?
Nel lungo elenco di domande rivolte al testimone, trova spazio un ampio focus sul traffico di droga nel Cosentino. «Noi magari a volte prendevamo la droga anche da Roberto Porcaro con Marco Abbruzzese, prendevamo la droga a Cassano dagli Abbruzzese, (…) la marijuana la prendevamo anche dai Perna», confessa. E come veniva immessa sulle piazze di spaccio? «Veniva distribuita, la distribuivano a tutti gli spacciatori, la consegnavano a duecento grammi alla volta, trecento grammi alla volta a persona, poi magari gli davano un tempo, venti giorni, venticinque giorni, un mese, e tutti gli spacciatori dovevano rientrare con i soldi». Il sistema è abbastanza collaudato. Per quanto concerne invece l’esclusiva legata allo spaccio. «I “Banana” (clan Abbruzzese di Cosenza, ndr) dovevano avere soltanto l’eroina e gli “Italiani” soltanto la cocaina». E se qualcuno sgarrava «succedeva che prendeva le botte oppure doveva pagare questo risarcimento».
Ma qualcuno – a detta del pentito – avrebbe trasgredito le regole del “Sistema”. «I “Banana” mi ricordo che parlavano di certi albanesi, che avevano preso l’eroina dagli albanesi. Era sottobanco e non era quella di Cassano, bensì di questi albanesi (…) l’avevano pagata di meno». Ma perché un gruppo come quello degli Zingari di Cosenza avrebbe fatto ricorso al “sottobanco”? «Ne parlavano davanti a me che avevano preso questa partita a poco prezzo, che magari volevano mettere sul mercato. Secondo me per pagare i debiti che avevano con quelli di Cassano. Io so che avevano 80mila euro di debiti con quelli di Cassano per il fatto dell’eroina che avevano preso successivamente».
Le estorsioni e il «distacco»
Come ammette lo stesso collaboratore di giustizia, oltre al traffico di droga si sarebbe occupato anche di imporre e riscuotere le estorsioni. «C’era qualche estorsione fatta insieme fatta insieme e per qualsiasi attività i proventi venivano divisi tra “Italiani” e Abbruzzese». Il collaboratore di giustizia tratteggia i contorni di un rapporto sinallagmatico tra i due clan, ma tuttavia quando il pm chiede di soffermarsi sulla natura dei rapporti con gli altri membri della galassia criminale bruzia Barone sottolinea l’esistenza di alcune acredini e la volontà «insieme a Gianluca Maestri (oggi pentito) di fare un distacco». Il motivo è presto spiegato. «Dato che i soldi delle estorsioni magari non ci bastavano (…) a noi ci rimaneva la miseria perché non solo dovevamo pensare ai “Banana” e a quelli che si prendevano loro (…) Io e Maestri poi dovevamo pensare anche a quelli che rimanevano, tipo Lamanna, Sottile, Marco Abbruzzese». Insomma il lavoro sporco non paga o almeno non quanto i due amici e uomini dei clan immaginavano.
«Gianluca Maestri è subentrato dal 2019 in poi a fare parte del gruppo, si occupava di estorsioni, di droga (…) Dottò, diciamo che eravamo a pari passo su questo punto di vista, perché nel momento in cui siamo rimasti noi due, dove dovevamo fare tutto per mantenere la baracca», ammette il pentito.
Le intimidazioni
Il collaboratore di giustizia fornisce ulteriori dettagli sul modus operandi utilizzato per “convincere” gli imprenditori a pagare le estorsioni. «(…) Come abbiamo fatto con Michele Di Puppo, che magari c’era un imprenditore che non voleva pagare, ci abbiamo messo una testa di porco avanti la porta, ci abbiamo messo la bottiglia per intimidazione, l’abbiamo chiamato sul telefono per minacciarlo, per farlo pagare, tutte queste cose qua…». (f.benincasa@corrierecal.it)
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