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Da ieri il mondo dell’informazione ha iniziato a dedicare spazio al nuovo Rapporto Censis, appena pubblicato. Rapporto giunto alla 58a edizione, interpretando anno dopo anno i più significativi fenomeni socio-economici del Paese.

Nelle sue considerazioni generali parla di “sindrome italiana”, continuità nella medietà, in cui siamo rimasti intrappolati. Per gioco, ma neanche troppo, propongo un sunto dei commenti introduttivi dove il termine Asti prende il posto di Italia, astigiani di italiani. Non date come esatti alla virgola le percentuali nazionali portate, per gioco, al locale, ma vedete voi se la differenza è minima o meno. Le parole scelte, questa volta, non sono mie, ma del Censis, parole che, anche solo per la sua importanza e credibilità, non ho potuto che condividere e riportare, quasi paro paro, di seguito.

Il ceto medio si sta sfibrando nell’evidenza di un potere d’acquisto nettamente inferiore a vent’anni fa, si incrina la fede nelle democrazie liberali, nell’europeismo e nell’atlantismo: il 66% degli astigiani incolpa l’Occidente dei conflitti in corso e solo il 31% è d’accordo con il richiamo della Nato sull’aumento delle spese militari. Intanto si infiamma la guerra delle identità sessuali, etnico-culturali, religiose, in lotta per il riconoscimento. Mentre è in atto una mutazione morfologica del capoluogo. Siamo preparati culturalmente? Nel Paese degli ignoranti, per il 19% Mazzini è stato un politico della prima Repubblica e per il 32% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o da Leonardo. Ecco i conti che non tornano nel sistema-Asti: più lavoro, forse, e meno Pil, turismo su, industria e commercio giù, crescenti ipoteche sul welfare e giovani sempre più portatori di disagio.

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Asti da tempo si muove intorno a una linea di galleggiamento, senza incorrere in capitomboli rovinosi nelle fasi recessive e senza compiere scalate eroiche nei cicli positivi. Anche nella dialettica sociale, la sequela di disincanto, frustrazione, senso di impotenza, risentimento, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole, così caratteristica dei nostri tempi, non è sfociata in violente esplosioni di rabbia. Ci flettiamo come legni storti e ci rialziamo dopo ogni inciampo, senza ammutinamenti. Ma la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata. La sindrome astigiana nasconde non poche insidie. L’85,5% dei residenti è convinto che sia sempre più difficile salire nella scala sociale.

Non siamo culturalmente preparati al salto d’epoca. La mancanza di conoscenze di base rende i cittadini più disorientati e vulnerabili e, mentre si discute di egemonia culturale, per molti astigiani si pone invece il problema di una cittadinanza culturale ancora di là da venire, convinti non in pochi che il «culturista» sia una «persona di cultura». Nel limbo dell’ignoranza possono attecchire stereotipi, pregiudizi e fragilità. Fragilità che troviamo nel 58% dei giovani di 18-34 anni, con il 56,5% che si sente solo, il 51,8% soffre occasionalmente di stati d’ansia o depressione, il 32,7% di attacchi di panico, il 18,3% accusa disturbi del comportamento alimentare, come anoressia e bulimia. Ma c’è anche una maggioranza silenziosa fatta di giovani che mettono in gioco strategie individuali di rilancio per assicurarsi un futuro migliore. Rilancio personale in altre città italiane o all’estero.

Dopo anni in cui la società astigiana è rimasta alla finestra, si affacciano all’orizzonte un nuovo scenario nazionale e mondiale e un nuovo scenario tecnologico nei quali le barche non salgono e non scendono più tutte con la stessa marea. In larghissima maggioranza, gli astigiani galleggiano, nonostante tutto e come sempre. Galleggiare abilmente non ci protegge però da una lunga serie di inconvenienti. In una Città che sente l’affanno del rimettersi in movimento, che rimette in gioco le sue dimensioni intermedie, che depotenzia le spinte imitative, che prova a muovere l’acqua non solo per galleggiare e sopravvivere, ma anche per muoversi su nuove rotte, resta l’antico vizio di una scarsità di direzione, di un’assenza di traguardi e di coraggio per affermarli. È faticoso dare direzione allo sviluppo, immaginare una rotta e seguire una tabella di navigazione a causa principalmente della società chiusa e dei pochi che ne muove le scelte strategiche.

In una società chiusa, la crescita o non c’è o è drammaticamente lenta. Lo sviluppo economico, sociale e del benessere personale matura e diviene concreto nelle società capaci di aprirsi al nuovo, di spezzare il recinto, di esplorare nuovi confini, di accogliere nuovi innesti, di correre nuovi pericoli. Dopo un così lungo tempo trascorso nell’attesa, Asti deve prendersi il rischio di andare oltre.



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