È finita dopo 54 anni di potere. A bordo di un aereo verso una destinazione ancora sconosciuta, forse la Russia, Bashar al Assad, il rais che ereditò il potere dal padre Hafiz, ha abbandonato la Siria lasciandosi alle spalle una storia lunga mezzo secolo. Tutto era cominciato nel novembre del 1970 quando l’allora generale e ministro della Difesa, Hafiz al Assad, prese il potere con un colpo di stato, guidando il “movimento correttivo”. Gli uomini forti della Siria di allora, Salah al Jadeed e Nureddin Atassi, entrambi appartenenti al partito Ba’ath, furono incarcerati a vita.
La strategia di Assad padre fu quella di creare un sistema di potere in cui le minoranze, in particolare quella alawita a cui lui faceva riferimento, controllassero i posti chiave del potere militare e politico del Paese. Solo così, mettendo uomini di fiducia – e famigliari – nei posti chiave dei quasi dieci servizi segreti, il presidente Hafiz al Assad garantì di avere il controllo capillare. Come dimostrano le repressioni di Hama e di Aleppo, fra il 1979 e il 1982, in cui decine di migliaia di oppositori o comuni cittadini trovarono la morte dopo aver protestato contro lo strapotere dell’uomo forte di Damasco. Ad aggiungersi, una visione pragmatica degli equilibri internazionali aiutò la Siria del regime a trasformarsi in un degli attori principali del Medio Oriente. Dalla guerra del 1973 dello Yom Kippur fino ai conflitti civili in Libano e, successivamente, in Iraq hanno visto la Siria in primo piano, capace di diventare l’ago della bilancia nei maggiori scenari.
Quando nel giugno del 2000 Hafiz al Assad muore, Bashar, incoronato ad erede della dinastia dopo la morte del fratello maggiore Basel, scomparso in un oscuro incidente d’auto, viene visto come possibile riformatore. Parla inglese e ha studiato oculistica a Londra, scrivono. Solo per questo fatto, insieme alla sua estraneità parziale ai circoli di potere, sarebbe dovuto bastare a condurre il Paese ad una transizione. La stampa internazionale amicò al nuovo presidente, eletto con un plebiscito popolare e grazie a un emendamento costituzionale durato pochi minuti, nel quale si abbassava l’età richiesta da 40 a 35 – quella di Bashar – per ricoprire la carica.
Nel 2001 molti membri dell’opposizione e della classe intellettuale siriana si riuniscono e danno avvio a quella che verrà ricordata come primavera di Damasco, finita poi con una tornata di arresti. Chi uscirà dal carcere, nel 2005, tenterà di chiedere nuovamente aperture al governo attraverso la pubblicazione del “manifesto di Damasco”. Fra i firmatari il cristiano Michel Kilo, morto in esilio a Parigi, Riad al Seif, Abdulrazak Eid e i rappresentanti di partiti d’opposizione clandestina, come quelli nazionalisti e curdi. Ma Bashar al Assad, allora impegnato nella crisi in Libano e nella smobilitazione dell’esercito siriano dal Paese dei cedri, risponderà ancora una volta con una tornata di arresti. La Siria, da allora, venne chiamata “il regno del silenzio”, come scrissero al Jazeera e altri quotidiani arabi.
Fino al 2011 quando, sull’onda delle primavere arabe, alcune manifestazioni di piazza – non autorizzate dai servizi siriani – presero avvio nelle città della campagna. A Daa’ra, nel sud del Paese, dei bambini scrissero sul muro della scuola “il popolo vuole la caduta del regime”. Vennero arrestati e scomparvero per qualche giorno. Le famiglie dei ragazzi, tutti fra i dieci e i 13 anni, si recarono dalle autorità a chiederne la liberazione. La rabbia esplose quando i bambini vennero liberati e sul corpo mostravano segni di tortura. Assad, probabilmente influenzato dai membri della sua cerchia ristretta, convinto di poter gestire la situazione, mandò l’esercito a schiacciare i disordini. Altre proteste presero avvio nel Paese, ma la risposta militare del governo non si fece attendere e le dimostrazioni, da pacifiche, divennero armate.
Fu l’inizio di una guerra civile e dell’ascesa di movimenti islamici che hanno fatto proselitismo all’interno del vuoto creato dalla repressione. Il coinvolgimento delle potenze estere e regionali, come la Russia, la Turchia, i Paesi del Golfo e gli Usa divenne rilevante nel gioco di pressioni e di influenze. Da una parte, i paesi del Golfo e la Turchia in sostegno degli insorti; gli americani a sostegno dei curdi del YPG, braccio armato siriano del PKK. Infine la Russia e l’Iran, impegnate a reggere un regime traballante.
Fino a sabato, fino alla partenza di Bahsar al Assad. A rimanere, guidando ciò che resta è il primo ministro siriano, Mohamed Ghazi al Jalili che, in un video pubblicato da casa sua a Damasco, prima di essere portato allo Sheraton Hotel, forse a trattare o forse in arresto, ha detto: “Non abbandono il mio Paese. Sono pronto a negoziare con qualsiasi forza d’opposizione per il bene della Siria e dei siriani”. Ma dopo oltre tredici anni di guerra, un milione di vittime e un Paese in rovina le questioni sul tavolo sono molte. La Siria, infatti, non è più una entità territoriale sovrana.
Nella zona est le milizie curde controllano l’area della Jazeera. Nel deserto, sacche di miliziani dell’Isis stanno approfittando del disordine per rialzare la testa. I fedeli di Assad si arroccano sulle montagne della costa, insieme a moltissimi cittadini di confessione alawita che temono ritorsioni. L’odio confessionale, le vendette, una mancanza di giustizia e il problema del fondamentalismo, insieme alla necessità di creare uno Stato che includa tutti a prescindere dal credo religioso, sono alcune delle sfide che la Siria si trova ad affrontare. Mentre milioni di rifugiati, dall’Europa all’America, ora non sognano più: possono tornare.
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