Roberto Ragusa: Da Livorno al Lusso Mondiale dell’Hotellerie

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LIVORNO. Per i turisti americani non devono mai mancare aria condizionata, spazi ampi e super comfort proprio come a casa e cappuccini dopo pranzo e dopo cena. Per i giapponesi pulizia e tecnologia al primo posto. Per noi italiani, in qualunque parte del mondo, il caffè (espresso) ci deve essere. È maestro di hotellerie nel mondo il “nostro” Roberto Ragusa: classe ’72, livornese cresciuto in piazza Magenta e sui banchi, prima, delle elementari De Amicis, poi le Marradi fino al diploma di Linguistico al liceo Cecioni. A 19 anni il primo grande salto all’estero.

Oggi abita a Francoforte ed è una delle anime del The Leading Hotels of the World, una raccolta degli hotel di lusso indipendenti più esclusivi al mondo che si occupa di unicità dal 1928. Dalla sua fondazione, la comunità The Leading Hotels of the World è cresciuta fino a diventare la più grande collezione di hotel di lusso indipendenti e distintivi al mondo.

Il primo grande salto all’estero

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«Il mio primo viaggio all’estero è stata una vacanza studio a Fulda, Germania. Avevo 16 anni. Il tedesco è sempre stata una lingua che mi affascina, una passione, che, come tutte le passioni, è impossibile spiegare, giustificare – e non è necessario farlo. Ho ancora ricordi molto vivi di questa esperienza, un mondo nuovo, una nuova cultura. Un’esperienza che ha confermato il mio desiderio di approfondire la conoscenza della lingua».

Roberto ormai maestro e conoscitore del lusso nel mondo degli hotel. In cosa consiste di preciso il suo lavoro? Quali sono le tappe più importanti, decisive e qualificanti della sua carriera

«Lavoro nel mondo dell’hotellerie di lusso da 23 anni, gli ultimi 17 presso The Leading Hotels of the World (www.lhw.com), un gruppo che rappresenta piú di 400 alberghi indipendenti in 80 Paesi. 76 di questi alberghi sono in Italia e ben 18 in Toscana, cosa che mi rende molto fiero. Il mio lavoro consiste nell’affiancare gli alberghi in Italia, Malta e Cipro nelle loro strategie di vendita, marketing, distribuzione. Un misto di consulenza e account management. Dopo aver lavorato come interprete e traduttore, ho sentito il bisogno di fare qualcos’altro, e così mi sono trasferito a Francoforte (dove avevo lavorato a molte fiere come interprete, conoscevo quindi la città) e ho iniziato a lavorare in un call center per prenotazioni alberghiere; dopo 8 mesi sono diventato il supervisore del call centre, sono poi passato a lavorare nell’ufficio training (organizzavo la formazione tecnica sul sistema di prenotazione, a stretto contatto con varie catene alberghiere). Nel 2007 ho iniziato a lavorare per Lhw, che da mio cliente è passato a mio datore di lavoro».

Nel suo lavoro cosa porta con se di Livorno?

«I miei amici tedeschi mi considerano più tedesco dei tedeschi – mi è sempre piaciuta la puntualità, la precisione, la sistematicità. L’approccio livornese viene fuori quando si tratta di sdrammatizzare, di non prendere tutto sul serio, si fa a cazzotti e poi si va a prendere il ponce (o anche un 5 e 5) insieme. E quando dico che sono di Livorno, è sempre un piacere sentire dire da qualcuno, al di fuori della Toscana: “Livorno? Ah, il Vernacoliere, il cacciucco, i film di Virzí”»

Nel suo settore quali differenze in meglio o in peggio vede con l’Italia?

«L’Italia ha delle eccellenze che fanno invidia a tutti. Non è solo la posizione geografica, il cibo, il clima; c’è spirito imprenditoriale, creatività, flessibilità, caratteristiche imprescindibili nel settore dell’ospitalità. C’è ancora molto potenziale: il mondo del turismo deve diventare ancora più attraente per i giovani, è necessario trasmettere l’idea fondamentale che “servizio” non è un sottomettersi ai desideri di un ospite esigente (in particolar modo nel modo 5 stelle) bensì creare per questo ospite un’esperienza unica e irripetibile, che lo renderà felice e che quindi farà felice anche chi “serve”».

Con la sua esperienza potrebbe dirci qualche curiosità rispetto alle richieste di turisti dal mondo? Per esempio per gli americani che scelgono il lusso cosa non deve mai mancare? Per quelli italiani? Per i giapponesi?

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«Il turista americano in Italia ha bisogno innanzitutto dell’aria condizionata. Particolarmente in un’estate torrida come questa, l’aria condizionata è imprescindibile – e parlo di temperatura in camera di 16 gradi che per noi a Livorno è già da piumino. E non è un luogo comune: il cappuccino verrà ordinato anche dopo pranzo e dopo cena, non solo dallo statunitense, ma anche da altri (il tedesco in primis). Infine, l’americano cerca “spazio” – le camere devono essere ampie e non solo le camere: un albergo in pieno centro a Firenze ha una piscina in giardino, non piccolissima ma neanche come quella dei Pancaldi, una turista americana texana si è lamentata in quanto “la piscina a casa mia è tre volte grande”. In sintesi; un ospite che ha un potere d’acquisto molto elevato vuole trovare, quando viaggia, quel comfort che ha a casa. E se vogliamo continuare con un paio di stereotipi e curiosità – l’italiano ha bisogno, in qualsiasi parte del mondo, di un buon caffè; per il giapponese, la pulizia deve essere impeccabile – e il soggiorno deve essere tecnologico/interattivo; l’aspetto umano è fondamentale, ma poter scaricare una App con i servizi dell’albergo, in giapponese, renderà il soggiorno più piacevole».

Qualche personaggio famoso che ha incontrato? Le richieste di comfort e lusso più strane o curiose che ha dovuto soddisfare?

«Io lavoro a stretto contatto con gli alberghi coadiuvandoli nelle loro strategie commerciali, di marketing e di qualità, quindi non gestisco in prima persona il rapporto con gli ospiti, ma di storie ne ho sentite tante: un albergo a Monaco di Baviera ha ospitato un principe saudita in una suite per diverse settimane e su richiesta dell’entourage del principe è stato abbassato il lavandino del bagno (staccato e riattaccato più sotto) in quanto la statura del principe non era proprio quella di un giocatore di pallacanestro. Personaggi famosi: ho scambiato due parole con Margherita Buy durante la colazione in un albergo a Milano e con Javier Bardem a Venezia; sempre a Venezia, ho dato la mano a Matt Damon. E la signora Gürtler, per anni a guida del famoso Hotel Sacher di Vienna, ha il mio numero di cellulare».

Come vede Livorno e i livornesi da lontano?

«Livorno, datti una mossa – non il singolo livornese (anche), ma Livorno come città deve dimostrare che non è solo la porta (o meglio, il porto) per andare a Firenze, Pisa, Siena, Lucca deve diventare anche un punto di arrivo o di partenza dove trascorrere due tre giorni, per scoprire la città, la sua offerta gastronomica, la sua gente. Per far questo, c’è bisogno di un’infrastruttura funzionante».

Cosa consiglierebbe ai ragazzi livornesi che hanno sogni da realizzare?

«Uscire dalla propria città aiuta sempre – anche per un parigino uscire da Parigi serve. È sempre necessario conoscere posti nuovi, culture nuove, confrontarsi con altre mentalità, modi di fare. Ho lasciato Livorno quando avevo 19 anni, subito dopo la maturità. Ho scelto di vivere altrove, ma ammiro chi dopo un periodo fuori dalla città, decide di tornare. Ogni città ha bisogno di persone che rimangono, che tornano, per portare avanti le tradizioni e l’autenticità. Passare del tempo fuori, allarga gli orizzonti ma l’orizzonte visto dalla Terrazza rimane sempre il migliore».

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All’estero cosa le manca della sua città? «Il mare, il 5 e 5, il frate, i totani ripieni di mamma».

Si vede pensionato a Livorno?

«Pensionato a Livorno? Sí, ma a una condizione: aprire, al risveglio, la finestra della camera da letto e vedere e respirare il mare e il suo salmastro». 

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