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C’è un modo per misurare il livello intellettuale e morale dei commenti del Ministro degli Esteri italiano alla conclusione del G7 tenutosi a Fiuggi, il 26 novembre scorso, a proposito del mandato d’arresto emesso dalla Corte Penale internazionale per Netanyahu e il suo ex ministro Joav Gallant, oltre che per i leader eventualmente sopravvissuti della milizia di Hamas. Ed è ripercorrere la storia che ha portato infine a questa sentenza, ricordare i suoi primi protagonisti, tributare loro l’onore e l’ammirazione dovuta a chi sa accendere ancora il fuoco ideale del diritto, solo vincolo all’arbitrio del potere.
Ma per verificare la differenza, diciamo così, di misura umana fra i primi promotori delle inchieste che sono infine sfociate nella sentenza della CPI e alcuni dei massimi decisori politici del cosiddetto Occidente, serve averle in mente queste parole, tanto poco memorabili che sarebbero altrimenti dimenticate subito, e non dovrebbero. Sembrano uscite dalla bocca dei Gendarmi di Pinocchio. “Bisogna capire di che diritto si parla… Netanyahu in ogni caso non andrà mai in un Paese dove potrebbe essere arrestato. E poi, anche fosse, chi lo arresterebbe?…. Si tratta di un capo di governo… non di un privato cittadino. È un periodo ipotetico, una decisione inattuabile”. Variazioni vivaci, in stile Commedia dell’arte, al sepolcro imbiancato della dichiarazione finale del G7 di Fiuggi: “Nell’esercizio del proprio diritto di difesa, Israele è tenuto in ogni caso a rispettare pienamente gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario. Ribadiamo il nostro impegno nei confronti di tale diritto e rispetteremo i nostri obblighi. Sottolineiamo che non ci può essere alcuna equivalenza tra il gruppo terroristico di Hamas e lo Stato di Israele”. La sentenza della CPI è implicitamente evocata nella prima riga (“gli obblighi derivanti dal diritto internazionale”) per essere contraddetta nell’ultima: non sono tutti eguali di fronte alla legge.
Una storia epica e tragica
E allora riviviamola, questa storia di uomini di fede (nella giustizia).
24 giugno 2015, la Palestina siede per la prima volta fra gli stati membri della Corte penale internazionale, all’Aja. Ed è per questo che da allora in poi, che Israele accetti o no la giurisdizione della Corte, le sue sentenze la riguardano e sono vincolanti per tutti quelli che l’accettano, checché ne pensino certi ministri. Ma non era stato facile, arrivarci. Tutto comincia con l’operazione militare israeliana “Piogge d’estate”, la prima delle sei successive che devasteranno la Striscia, nel giugno 2006. L’avvocato palestinese Raji Sourani, fondatore e direttore del Centro per i diritti umani a Gaza, riesce a ottenere un colloquio con il primo procuratore della CPI, Luis Moreno Ocampo, e gli porta una massa impressionante di documentazione, risalente negli anni, di violazioni di diritti umani da parte di Israele. La risposta di Ocampo è netta: nessuna inchiesta avrebbe potuto partire, a meno che non fosse accettata dagli americani. Ma ci sono zero chances: gli Stati Uniti non hanno firmato lo statuto di Roma del 1998, che istituisce la CPI. Figuriamoci, proibiscono alla Corte anche di interessarsi alle azioni delle loro truppe in Afghanistan.
14 gennaio 2009. Il diluvio di bombe su Gaza dell’operazione “Piombo fuso” scatena la protesta di migliaia di manifestanti sulle piazze del mondo. A Lione Gilles Devers, avvocato, ex infermiere, a nome di una ragazza quindicenne di Gaza, Amira Al Karem, e col mandato di un centinaio di associazioni, invia alla corte una prima segnalazione. I responsabili dell’Autorità Nazionale Palestinese si muovono: Ali Khashan, “Ministro della giustizia”, e Ryad Al-Maliki, “ministro degli esteri”, chiedono ragione a Ocampo, alla CPI. E Israele percepisce questa richiesta di ragione come “un atto di guerra”. Il consigliere legale dell’esercito israeliano- uno dei veri giudici-re delle territori occupati, con un telegramma del 27 febbraio 2010, pubblicato da Wikileaks, chiede a Washington di far pressione sulla Corte. Da allora, e nei successivi 14 anni, Israele userà tutti i suoi mezzi (legali, diplomatici e di intelligence) per ostacolarla.
Maggio 2011: Mahmoud Abbas annuncia l’intenzione di chiedere l’ingresso a pieno titolo dello stato di Palestina nell’ONU. Pochi mesi dopo, Ocampo riceve all’Aja l’ambasciatore israeliano: segretamente, perché Israele ignora ufficialmente anche solo l’esistenza della CPI. E decide di chiudere il dossier, prima di lasciare il suo incarico. Se la Palestina vuole chiedere ragione in Corte, prima dovrà essere membro dell’ONU. E che succede a New York? Francia e Regno Unito si dichiarano pronti a votare a favore, ma solo a condizione che la Palestina rinunci a chiedere alcunché alla CPI. Qui Raji Sourani ha una battuta che dovrebbe essere la chiave di una grande tragedia sul gioco dei potenti. «Mi sarei aspettato che l’Europa ci chiedesse di rinunciare alle armi. Macché. Ci chiedeva di rinunciare al diritto». Tutto quello che la Palestina riesce a ottenere è lo status fantasmatico di “Stato osservatore non membro”. Eppure, è uno spiraglio nel muro della sua prigione. Questo pugno di uomini che resistono in pace ai potenti della terra scopre che il nuovo status apre alla Palestina la porta di 63 convenzioni e organizzazioni multilaterali, fra cui la CPI. La rappresaglia di Israele non si fa attendere, con l’annuncio della costruzione di 3000 nuovi alloggi per coloni israeliani a Gerusalemme Est, occupata e annessa. Eppure fra il 2013 e il 2014 per 10 mesi le autorità palestinesi sospendono perfino la resistenza legale, pur di sostenere lo sforzo di John Kerry, segretario di stato di Barack Obama, di riprendere il progetto di pace. Quando nel 2014 gli israeliani ricominciano a bombardare Gaza, la questione se aderire alla CPI si ripropone. Nabil Abuznaid, ambasciatore palestinese all’Aja, dichiara ancora che al giudizio della Corte la Palestina preferisce un trattato di pace, tanto più che a Ramallah non credono che Hamas vorrà ratificare la convenzione. Gilles Devers e Raji Sourani avevano avvertito la sua dirigenza che anche la resistenza armata deve sottostare a dei vincoli, e che certo Hamas correva pericolo di fronte alla CPI. E qui c’è un altro coup de théâtre, che dovrebbe chiudere il terzo atto: Hamas accetta, a suo rischio e pericolo. Il 2 gennaio 2015, Mahmoud Abbas consegna la ratifica dello statuto di Roma al Segretario Generale delle nazioni Unite, a New York.
Ma la strada è ancora lunga. All’Aja la nuova procuratrice, Fadou Bensouda, gambiana, per quattro anni riceve ogni mese nuovi documenti dalla Palestina: testimonianze, video, studi su tutti gli aspetti dell’occupazione: “guerre” a Gaza, colonizzazione della Cisgiordania, con metodi sempre più crudeli. Ma lei temporeggia. Le pressioni di Israele e del Mossad, riferite dal Guardian e dalla rivista di inchieste +972, sono pesanti. La svolta c’è nel 2018. Lungo i confini di Gaza centinai di migliaia di palestinesi partecipano alle “Marce del ritorno”, e cadono a decine sotto il fuoco dei cecchini israeliani. Intanto Trump viola platealmente lo statuto internazionale di Gerusalemme spostandovi l’ambasciata americana. Mahmoud Abbas finalmente si sveglia, il suo “ministro” Ryad Al-Maliki chiede l’apertura formale di un’inchiesta sui crimini perpetrati in Palestina, e a partire dal 2019 i giudici della Corte chiamano avvocati, professori, ONG a dibattere in udienza. E siccome per Israele la CPI non esiste, sono i suoi amici a difendere gli accusati: mezzo mondo accorre in loro soccorso. Regno Unito, Canada, Australia, Germania, Ungheria, Uganda, Austria, Repubblica Ceca, Brasile si oppongono all’apertura di un’inchiesta. Quando, nel febbraio 2021 Bensouda annuncia finalmente l’apertura formale di un’inchiesta, Netanyahu definisce la Corte “minaccia strategica” e dichiara “organizzazioni terroristiche” le ONG che si sono battute per questo risultato: sei, fra cui evidentemente il Centro di Raji e Al-Hak, il suoi omologo a Ramallah.
Il nuovo procuratore della CPI, il britannico Karim Kahn, inaugura il suo mandato congelando l’inchiesta. Per molti mesi il “ministro” palestinese Ryad Al-Maliki non è più ricevuto alla Corte. Del resto Kahn congela anche l’inchiesta sui crimini americani in Afghanistan, e graziosamente Biden allora leva le sanzioni che Trump aveva emesso contro la procuratrice precedente. Nel febbraio del 2022 Putin invade l’Ucraina, e con angelica rapidità la CPI già nel marzo 2023 emette un mandato d’arresto nei suoi confronti. Ottima cosa: peccato che la mossa svuoti di senso gli argomenti a favore dell’impunità dei membri di stati che non abbiano ratificato il trattato di Roma. La Russia si era in effetti ben guardata dal farlo.
La svolta apocalittica
Arriva il 7 ottobre. 1200 persone muoiono per mano delle milizie di Hamas e delle altre organizzazioni implicate, che catturano 250 ostaggi. Ecco: il quinto atto del dramma dovrebbe aprirsi con l’invettiva di Raji Sourani, che dalle macerie della sua casa, della sua vita, dei suoi ricordi, sopravvissuto per miracolo con moglie e figlio alla distruzione della sua casa a Gaza City il 23 ottobre 2023, sommerge nel disprezzo il silenzio ostinato di Karim Kahn. Non è fuggito, Raji, quando l’IDF ha chiesto agli abitanti del Nord di Gaza di lasciare il paese. “Gliene chiederemo ragione, di questo silenzio”. Non altro. Si può leggere al sua prima lettera al mondo sul sito dei giuristi democratici italiani.
In dicembre Kahn visita Israele, invitato dai familiari degli ostaggi e delle vittime del 7 ottobre. Passa da Ramallah e lancia un sussurro: se Israele non si conforma alla legge ora, non potrà lamentarsi poi. Una squadra di senatori americani gli scrive una lettera minatoria: se Israele diventa il tuo bersaglio, tu sarai il nostro. Uomo avvisato… Ma neanche la mafia di Broccolino! Nel frattempo, il mondo intero ascoltava col fiato sospeso le requisitorie degli avvocati della delegazione sudafricana all’altra corte dell’Aja, la Corte Internazionale di Giustizia, e le arringhe difensive degli avvocati israeliani, l’11 e il 12 dicembre; e poi, il 26 gennaio 2024, la pronuncia della CIG, che dichiara ben fondata e plausibile l’accusa, e in attesa della sentenza definitiva impone a tutti gli stati membri dell’Onu le misure atte a fermare il compimento del genocidio. In Italia si grida alla bestemmia, ma la CIG insiste – invano – a ribadire le sue misure per altre tre volte.
E finalmente, il 20 maggio, Karin Kahn osa l’inosabile: “le vite di tutte le vittime, dovunque si trovino, hanno lo stesso valore”. E depone il risultato della sua indagine preliminare: sì, occorre che la Corte deliberi sulla fondatezza delle accuse, diverse, ai tre leader di Hamas, Ismail Aniyeh, Yaya Sinwar, Mohammed Deif, e ai due ministri israeliani, Netanyahu e Gallant. L’America e quasi tutti gli stati europei sobbalzano: equiparare Israele a Hamas! Vergogna! L’Assemblea degli stati membri della CPI getta la carta sporca di un’accusa di molestie sessuali nei confronti di Kahn, che la refuta. Il quinto atto si avvia alla fine. E’ quello delle grandi indagini giudiziarie – una aperta alla luce del mondo, l’altra che si svolge a porte chiuse, e nonostante pressioni e colpi di scena arriva alla sua conclusione provvisoria. Perché non è una sentenza. E’ un giudizio conclusivo sull’indagine avviata, che non chiude, ma apre un processo possibile. Eccolo, per quanto riguarda le parti israeliane (nel frattempo l’IDF ha eliminato per vie non giuridiche due degli imputati dell’altra parte, e non è chiaro se sia vivo o morto il terzo, Deif) : “La Corte ritiene che esistano ragionevoli motivi per credere il signor Netanyahu , primo ministro di Israele, e il signor Gallant, ministri della Difesa di Israele… siano entrambi penalmente responsabili dei seguenti crimini: crimine di guerra con uso della fame come metodo bellico; e crimini contro l’umanità di omicidio, persecuzione e altri atti inumani”.
E luce fu
Quindici anni di battaglia di un pugno di uomini armati di soli codici, contro l’immane potenza dei Leviatani e dei loro servizi, e anche dei loro servitori, per arrivare a un po’ di luce sulla verità: luce che della giustizia è il cuore. Ecco giunto a conclusione il confronto fra uno di questi servitori, dalle cui parole eravamo partiti, e l’uomo che per questo po’ di luce ha sacrificato la sua casa, i suoi ricordi, tutti i suoi beni, ed era pronto a sacrificare anche la vita, Raji Sourani. L’assunto sulla differenza di misura umana ci pare provato, ma non era questo l’importante. Era, invece, che ai moltissimi a questo mondo cui cinismo e Realpolitik hanno tolto ogni coraggio morale e ogni fede razionale venga offerto l’esempio, sconosciuto ai più, di un uomo degno di sconfinata ammirazione, la cui vita rafforza e corrobora le ragioni della nostra.
Gandhi si diceva perplesso dall’idea cristiana che la verità fosse uno dei nomi di Dio. Comprendeva molto meglio – ce lo racconta Aldo Capitini nel suo appena ripubblicato Le tecniche della nonviolenza (Manni 2024) – l’ipotesi che Dio fosse uno dei nomi della verità.
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