Diego De Silva Avvocato di Successo

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Conto e carta

difficile da pignorare

 


Torna in Tv Diego De Silva e il suo avvocato Malinconico. La serie è alla seconda stagione ed è il frutto della riscrittura di alcuni dei suoi romanzi, pubblicati da Einaudi e che lo hanno reso scrittore popolare.
Il debutto è stato positivo grazie anche a Massimo Reale, che non solo ha riscritto i libri di De Silva ma anche quelli di Gabriella Genisi e della sua “Lolita Lobosco”, insieme ad altri, grazie alle riprese con i droni, grazie a Santi Pulvirenti per la colonna sonora e grazie a Massimiliano Gallo che riesce a caratterizzare il personaggio in maniera precisa, senza mai uscire dalle righe, tanto da andare in giro con la borsa da lavoro ripiegata a mo’ di pochette, per rendere l’ avvocato Malinconico ancora più medio e alla moda.
Insomma Vincenzo Malinconico, avvocato d’insuccesso, piace perché è un uomo ordinario, non alla maniera di Pereira di Tabucchi (che si rifaceva a Pessoa, per fare un paragone letterario da un punto di vista della prossimità caratteriale) gli manca la verve, e questa mancanza funziona per il pubblico, medio, ma non funziona per tutto il resto del mondo, che è molto più ampio e vario. A guardarlo sembra di essere capitati in un’altra serie, “Lolita Lobosco”, è il convitato di pietra con cui Vincenzo Malinconico gareggia, senza che lo si possa mai dimenticare, e si vedono anche tutte le falle dei libri, mentre l’utilizzo della musica, fuori sincrono con il resto, dà luogo a qualcosa di straniante.
Insomma la serie è un prodotto, un hamburger McDonald’s dolce e salato, da consumare e poi da dimenticare .
Eppure Diego De Silva è stato autore talentuoso, tanto che a venti anni dalla pubblicazione di “Certi Bambini”, nel 2021, Einaudi lo ha ripubblicato, proprio perché è uno scrittore seguitissimo, ma alla luce di queste evoluzioni (?) cosa rimane di quel libro, e perché Einaudi ha deciso di ripubblicarlo, con tanto di pubblicità in ogni dove, come si conviene agli autori cari al grande pubblico qual è De Silva?
Diego De Silva venti anni fa aveva al suo attivo un solo libro, il romanzo che lo fece scoprire al grande pubblico, romanzo che prende il titolo de “La donna di scorta”, libro, questo, che lui avrebbe riscritto e riversato in altri libri, serie dell’avvocato Malinconico compresa, perché è un libro ricco di spunti, preannunciatore di un andamento emotivo che avrebbe segnato la nostra epoca. Un’ epoca di disincanto, che si ritrova e si riconosce solo e sempre nella narrazione di sentimenti sbilenchi e sbilanciati, contesto in cui l’opera di De Silva tende a posizionarsi da quel momento, e ad ottenere il consenso di un ampio numero di lettori, che lo consegnarono al successo anche in virtù dei premi prestigiosi che il libro vinse.
Pubblicato nel 1999 da Pequod, e poi rieditato nel 2001 da Einaudi, il romanzo vinse il Premio del Giovedì Marisa Rusconi, e fu finalista al Premio Montblanc, tutti premi, questi, che fecero diventare De Silva, all’istante, scrittore di professione.
« Succede continuamente. Ogni giorno, in ogni parte del mondo qualche milione di persone dice al milione che ha appena incontrato: “Non so perché sto raccontando tutte queste cose proprio a te, che ti conosco appena “. E invece so benissimo quello che fa. Viviamo nell’attesa permanente dell’estraneo a cui consegnarsi mani e piedi. A cui saremmo capaci di sacrificare gli affetti più cari, se necessario. Anche quando siamo in malafede. Anche se sappiamo benissimo che al momento opportuno ci tireremo indietro attaccandoci alla più ignobile delle scuse. Conta, però, il momento in cui siamo disposti a tutto. E tutto significa papale papale, tutto. »
Con questo libro De Silva decretò “l’involgarimento della scrittura”, nel senso del travaso sulla pagina scritta della lingua parlata, cosa che alcuni, Giulio Mozzi tra gli altri, salutarono come una rivoluzione, benché sia una rivoluzione a doppio taglio. L’ utilizzo dell’italiano parlato in luogo di quello scritto, modificava il posizionamento di De Silva nell’ambito letterario, facendolo andare dritto dritto, e in maniera definitiva, nell’alveo della produzione di massa, produzione di massa verso cui la stessa Einaudi stava procedendo, e verso cui “La donna di scorta”, più di “Certi bambini”, suo secondo libro, procedeva, in quel momento.
“Certi bambini” è un unicum nella sua produzione letteraria, ed è un libro che è stato precursore, anche in questo caso, di tutte le narrazioni sulla “mala gioventù” che tanto spazio hanno negli scaffali delle librerie, a cinema e sulle piattaforme digitali, ma in questo libro, a differenza de “La donna di scorta”, la lingua è altra, meno “volgare”, per calibrare una storia nient’affatto borghese, come invece era la storia de “La donna di scorta”, una cosa che rende il libro interessante. È questo il più “vero” tra i libri di De Silva, ed è un libro dove prevale la vista, come senso guida, in maniera giusta e poetica, e che dà a De Silva una dimensione letteraria differente, da qui la necessità per Einaudi di ripubblicarlo, probabilmente, per dare all’autore una possibilità di vita altra (“La donna di scorta” ,e la sua “vampirizzazione”, sono al limite e serve rigenerare la vena dell’autore).
“Certi bambini” come “La donna di scorta” è ambientato in una città qualunque, una delle tante senza volto e senza memoria, quelle in cui i luoghi fanno da sfondo stanco e neutro a protagonisti che si narrano attraverso una realtà malata.
Rosario è un bambino di undici anni che di mestiere fa il killer. Un adulto, in pratica, come tutti quelli che abitano nei quartieri degradati, dove la vita è subita più che partecipata.
È il suo sguardo a colpire, la capacità di osservare gli altri e il mondo con distacco.
Lo stesso distacco che gli permette di uccidere e di fare del bene. Le due azioni non sono scollegate, e sono anche l’unico modo per rendere il bambino interessante per i nostri occhi e per quelli di chi, con lui, condivide il disagio di una vita bruciata.
Non a caso Rosario dice che non è facile comportarsi normalmente, quando i pensieri tirano da una sola parte e il corpo vorrebbe rintanarsi ad aspettare, ed è proprio questa difficoltà di dare forma al disagio che “legittima” la sua attività d’assassino.
L’unico modo che Rosario ha per prepararsi, e per compiere il suo lavoro, è sezionare gli altri, quelli che incontra per strada, quelli che « stanno sempre con la paura che gli levano quelle quattro miserie che non vogliono spartire con nessuno, però tengono il posto, loro, il posto statale. Perciò parlano ».
E lo “sciattume”di queste vite si confonde con il salato e il familiare, il ferro e la fuliggine, con il sapore della morte. Il silenzio, le istruzioni, il bisogno di pisciare, urgente, la vita che scorre senza sussulti e all’improvviso la luce del giorno, bella, mentre una signora grassa apre la serranda di un negozio. Il sapore del sangue, quello trattenuto, sputato, mentre la bocca diventa fresca. Gli odori che diventano guasti e « ci si abbandona alla stanchezza per isolare la quantità di un dolore che chiama, si distende e ricorda ».
Impietoso e timido, tracotante e lucido, disteso e aggrovigliato come il finale del libro, realissimo e struggente, assolutamente letterario, tutto il contrario dell’avvocato d’insuccesso.
« Bei vassoi di cannoli alla siciliana, teste di moro, sfogliatelle, fagottini farciti di crema. Dolci da stagione fredda. Il rituale della domenica. Spesso hanno almeno un bambino per mano. Tornano a casa, nel caldo insopportabile. Cercano l’ombra sotto i palazzi. Probabilmente li aspetta un pranzo impegnativo, e qualche solito parente in visita. D’estate, di domenica c’è gente che compra le paste ».





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