Marco Brando è un giornalista vicino al mondo della medievistica; si è infatti occupato soprattutto della costruzione del mito di Federico II nella cultura contemporanea. È una forma di collaborazione relativamente nuova tra giornalismo e accademia: in decenni passati il giornalismo italiano si era soprattutto cimentato nelle grandi sintesi di storia narrativa, con esiti generalmente non felici. Qui invece siamo di fronte a un giornalista che spende le sue competenze professionali per comprendere gli esiti moderni della cultura storica, e per quanto concerne il medioevo oggi questa competenza rientra nel campo di ciò che definiamo ‘medievalismo’.
Il suo nuovo libro, Medi@evo. L’età di mezzo nei media italiani (Salerno editrice, pp. 174, euro 17), con prefazione di Marina Gazzini dell’Università di Milano, riflette sul ruolo fondamentale che i media e i comunicatori svolgono nella creazione e diffusione di stereotipi, specialmente quelli legati alla storia medievale. Con l’avvento dei social media e dei potenti algoritmi che regolano i contenuti, queste piattaforme non solo amplificano i luoghi comuni, ma creano vere e proprie bolle di informazione che assecondano le inclinazioni degli utenti, contribuendo a rafforzare visioni spesso distorte del Medioevo.
LA TRASMISSIONE delle informazioni non è più un processo verticale, dal produttore al consumatore, ma piuttosto orizzontale: un flusso interconnesso e caotico in cui si mescolano vecchi e nuovi media, con risultati imprevedibili.
La capacità dei media di influenzare ciò di cui le persone discutono è un fenomeno noto da tempo. Non cercano di imporre cosa pensare, ma orientano i temi su cui le persone si confrontano. In un’epoca digitale, questo potere diventa ancora più invasivo, con i media che suggeriscono non solo i temi di discussione, ma anche come interpretarli.
Così, il continuo uso negativo del concetto di Medioevo alimenta una visione stereotipata, favorendo il conformismo e i pregiudizi. In questo contesto, le persone tendono ad allinearsi alle opinioni che considerano dominanti, soprattutto quando queste sono sostenute da un’ampia copertura mediatica.
Questa dinamica influenza la percezione storica e il modo in cui il pubblico recepisce il passato, favorendo interpretazioni superficiali. La cultura contemporanea è spesso attratta dall’idea del Medioevo come epoca esotica e lontana, capace di intrattenere e di rispondere a un bisogno di identità e di mistero, anche se la rappresentazione di quel periodo risulta distorta. In questo senso, il Medioevo diventa un contenitore di miti e stereotipi, che talvolta entrano in collisione con il lavoro degli storici e condizionano il discorso storico.
I professionisti della storia, come quelli dell’informazione, sono chiamati a riflettere su come trasmettere il sapere in modo corretto. Se da una parte il pubblico è attratto da un Medioevo «fantasioso» perché risponde al suo immaginario, dall’altra il rischio è che si cristallizzino idee errate. Queste percezioni, infatti, influiscono non solo sui meno informati, ma arrivano a condizionare anche chi ha un’istruzione più alta. Il risultato è una cultura di massa che assorbe cliché e visioni parziali del passato, spesso senza la volontà di approfondire o rettificare le informazioni.
IL FENOMENO DENUNCIATO da Brando si inserisce in un contesto più ampio, in cui il ruolo della storia sembra relegato alle aule accademiche, mentre i media popolari si fanno carico di raccontare il passato al grande pubblico, nonostante felici eccezioni che l’autore ricorda, come quella costituita dal successo di Alessandro Barbero.
Tuttavia, non sono le eccezioni, per quanto qualificate, a poter cambiare la situazione. Marco Brando insiste, attraverso una serie di casi e aneddoti spesso anche divertenti, sulla necessità di intrecciare maggiormente lavoro accademico, divulgativo e scolastico: tre ambiti contigui che tuttavia non sempre sono in grado di dialogare. Sullo sfondo, tuttavia, abbiamo anche una società appiattita sul presente e sempre meno in grado di accogliere la complessità che lo studio della storia necessità. E su questa assenza di profondità, purtroppo, le nostre capacità di incidere sono assai limitate in assenza di riforme importanti dell’intero sistema di apprendimento e di ricezione del discorso culturale.
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